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 2019  marzo 06 Mercoledì calendario

Biografia di Antonello Venditti raccontata da lui medesimo

 
Soprannomi di Antonello Venditti: «Da adolescente mi chiamavano “Cicciabomba” perché pesavo quasi 100 chili. Ai tempi del Folkstudio, “Cicalone”, a causa di una voce che almeno all’inizio non somigliava a quella di un usignolo. Poi “adesso sì, adesso no”, per via di una certa irresolutezza e indecisione di fondo e infine Toshiro, come Mifune. Con barba e capelli lunghi mettevo paura e quando urlavo per difendermi, come certi animali, lo facevo in modo disumano. Se urlava Toshiro, ti dovevi spostare. In un’epoca in cui le aggressioni politiche erano quotidiane, quel grido mi salvò spessissimo. Mi è capitato anche di prenderle, ma il più delle volte, davanti alla mia voce, a scappare era l’altro». Tra timbri lievi e acuti improvvisi, Venditti è arrivato a 70. Ha venduto milioni di dischi, salta ancora i pasti: «A pranzo non mangio mai» e cova ricordi meno fumosi delle sigarette che brucia al ritmo della vita che si è scelto.
La prima canzone, Sora Rosa, la scrisse nel 1963.
«A 14 anni, pensando al suicidio o mettendolo in conto. Scaricavo nelle canzoni ciò che avevo dentro e la prospettiva, invece di sembrarmi drammatica, mi pareva la soluzione del problema».
Quale problema?
«La mia infelicità. Nelle canzoni era più semplice cavarsela che nella vita vera. Da adolescente grasso, se parliamo di bullismo, non avevo niente da invidiare a nessuno. Ero tra quelli che sentivano le risatine al loro passaggio e se una ragazza mi sorrideva neanche ci credevo. Lei si chiamava Fanny. Un amore mai dichiarato che pensavo irrealizzabile. A un certo punto mi feci avanti e scoprii con mia grande sorpresa che lei non era poi così indisponibile».
Perché era così infelice?
«Vivevo di cose non dette, di insicurezze, di soliloqui tra me e me. Wanda Sicardi, mia madre, era la più grande grecista del ’900. Figlia di nonna Margherita, una donna di Olevano Romano che non aveva studiato e come in una favola si era sposata con il principe palermitano Rivarola di Roccella, molto amico di Pirandello. La nonna aveva cucinato per tutta la vita crescendo la figlia a lezioni di lingue e ricamo, come si faceva con le signorine per cui ogni sacrificio è lecito. Con mamma avevo un rapporto complicato».
Complicato quanto?
«L’idea che avevo di lei,  professoressa rispettata e amatissima, era molto diversa da quella dei suoi alunni. Loro l’amavano, io no. E questo disamore mi creava dubbi, angustie, sensi di colpa. Mi chiedevo: “Chi è davvero Wanda?”. “L’importante è che tu sia infelice”, diceva. Sperava nei miei fallimenti, considerava le mie canzoni poco meno che spazzatura e a mio padre Vincenzo, convinta di non essere ascoltata, diceva di me: “Il ragazzo è cretino”».
E lei come reagiva?
«Io ci credevo. “Cazzo”, mi dicevo, “ma allora sono davvero stupido”. Ero un bambino che credeva nelle parole degli altri. Mio padre mi metteva in punizione davanti alla porta della cucina? Io piangevo e non mi muovevo per ore fino a quando lui non mi dava il permesso di spostarmi. Era diventato viceprefetto di Roma, papà. Non c’era quasi mai e nell’assenza mia madre lo considerava più o meno alla stregua del braccio violento della legge».
Lo era?
«Aveva delle manone, papà. Una volta mi diede uno schiaffo sulla natica e io quel segno me lo sono portato dietro per anni. Mio padre poi però ho imparato a conoscerlo. Era un uomo affascinantissimo. Bello, spiritoso, concreto, colto ed esperto. Era stato portato dal fratello in guerra, una guerra durata sei anni, prima privata e poi diventata italiana, riscoprendosi profondamente anarchico, quasi bakuniniano. Riteneva l’anarchia la forma più alta di ordine possibile. E aveva ragione. L’anarchia è coraggio, iniziativa, libero arbitrio, morale, senso della responsabilità. Per dotarmi di regole non ho bisogno dello Stato, ma del mio senso laico e civile».

Cos’è per lei il coraggio?
«Fare delle scelte e accettarne responsabilmente le conseguenze. Il coraggio è essere se stessi, non abbandonare il tuo io più intimo».
Com’era l’intimità della sua stanza in via Zara numero 13, a Roma?
«La stanza rappresentava quasi un limite invalicabile. Era il confine della mia solitudine, circondato dal filo spinato. C’era la casa e poi c’era la mia isola, una repubblica indipendente. Almeno sulla carta perché poi ogni tanto mia madre entrava, suonava il pianoforte e me devastava de brutto. Il pianoforte, nella stanza, lo aveva messo lei. Si metteva a suonare e toppava sempre la nota. In quella camera, non particolarmente grande, guardando i palazzi di fronte, ho scritto tante canzoni di cui mi vergognavo, come Roma capoccia, un pezzo rimasto per anni e anni  in un cassetto»
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Perché se ne vergognava?
«Perché non la riconoscevo, né la sentivo mia. Ma d’altra parte, dire cosa fosse davvero mio in quegli anni, è difficile. Un po’ perché lei mi sta facendo riaprire una storia dolorosa, uno scrigno chiuso che avevo deciso di non aprire mai più e un po’ perché se mi guardo indietro, capisco che la mia unica vera libertà era mangiare».
Apriva il frigo di notte e mangiava senza ritegno?
«No, il frigo lo apro adesso, a 70 anni e magari mi attacco alle merendine. All’epoca di notte dormivo e in compenso mangiavo tutto il giorno. In fondo era normale: dovevo compensare il buco sociale con il cibo. Era talmente poca la stima che avevo di me che mi attaccavo all’unico vizio che mi era concesso. La domenica poi era drammatica. Mi svegliavo nei profumi del ragù che mia nonna aveva messo da ore sul fuoco, ci inzuppavo tre rosette e poi poco prima di mezzogiorno uscivo per andare a messa. All’andata, facevo sosta dal gelataio più buono del quartiere e mi facevo fare una coppa con cioccolato, nocciola e panna con l’amarena e due cialde. Al ritorno idem. Poi il pranzo: la pasta, il filetto, le patatine fritte».

Come dimagrì?
«Visto che nessuno mi fermava, lo feci io. Arrivato a 94, ma forse anche a 98 chili dissi basta: “Ma non vedete che sono un baule?”».
C’entrava l’amore?
«Sicuramente. L’amore c’entra sempre. A volte mi ha messo nei guai, altre, il più delle volte, mi ha salvato. Come l’ironia. Non so cosa sarei senza aver letto Wodehouse. Quella socialità da college di Oxford era tutto ciò che sognavo senza poterlo raggiungere».
A Oxford i suoi Ray-Ban a goccia non sarebbero passati inosservati.
«Nei primi anni ’70 già portavo degli occhiali a goccia, quasi per vezzo perché all’epoca avevo solo una lieve miopia. Poi un giorno mi trovavo nelle Marche, sarà stato il ’73 o il ’74, dovevo andare a tenere un concerto a Macerata, ma prima del trasferimento si ruppe il furgoncino. In attesa di una sostituzione che non arrivò mai, incontrai una ragazza. Forse mi piace, forse le piaccio, forse ci diamo anche un bacio e forse quel bacio me lo dà solo per pietà».
Quanta vaghezza.
«Diciamo che la gioventù è quella cosa che quando la vivi è un inferno e quando la ricordi, invece, è un paradiso. Una cosa però è sicura: ero attratto dai suoi occhiali. Aveva dei meravigliosi Ray-Ban marroni. Mi innamorai della forma e decisi che dovevano essere miei. Da allora, uso sempre lo stesso modello».
Sarò sincero: sembrano quelli di un dittatore sudamericano.
«In qualche modo la storia è quella. Iniziamo a parlare degli occhiali e lei mi raccontò che erano dello stesso modello che usavano i piloti dei bombardieri americani in Vietnam. Per fumare i piloti infilavano una sigaretta al centro della montatura perché il diametro era perfetto ed era stato studiato appositamente. E qui veniamo ai dittatori sudamericani. Pensai: posso trasformare un simbolo di guerra per cantare la pace? Se li indosso io, forse, posso dare a questi occhiali un significato diverso. E così feci».

C’è una morale?
«Non è oro tutto quel che luccica e non è di sinistra tutto ciò che sembra. Anzi, niente è ciò che sembra. Da anni, dell’apparenza, non mi frega più niente e anzi, ne diffido. Non mi accontento mai di quello che raccontano le cose al primo sguardo».
Gli occhiali comunque non li ha cambiati.
«Una volta che una persona che si è sempre sentita inadeguata trova l’abito per sentirsi adeguato, quel vestito non lo cambierà mai. Da bambino grasso, non mi piacevo e non mi facevo andar bene  un solo pantalone. Più adulto ho indossato persino lo smoking, le grisaglie colorate di Carnaby Street o la giacca di David Crockett, con le frange, nel giorno in cui mi sposai con Simona Izzo. Ora mi metto le stesse cose da 40 anni. Penso di somigliare a me stesso. I jeans, le giacche di pelle, le magliette. Nello stesso modo continuo a vedere il mondo attraverso i miei occhiali. Filtrano la realtà, mi restituiscono una chiave di lettura, sono i miei raggi X».
Dopo l’addio tra voi, a Simona Izzo ha dedicato almeno tre canzoni.
«Quando canto l’amore non parlo mai di una figura platonica, ma di una persona. A volte è stata Simona, altre no. Prenda L’amore non ha padroni. O Dimmelo tu cos’è».
Il nostro cane/non mi riconosce più/altri profumi/altre valigie da portare su.
«In quel caso il cane era rimasto a lei, ma quando finisce una storia d’amore e uno dei due compra un cane, è sempre per riempire un vuoto che non si colmerà. Somiglia a un figlio, pretende cure, ti distoglie dai pensieri fino a quando non ti trovi solo la sera e cala il silenzio. I finali sono dolorosi. Tremendi. Nelle coppie accade di star male e poi in un giorno feroce, che non è mai quello che tu volevi, uno dei due dice “Basta, è finita”. E non è neanche importante chi tra i due lasci. Non c’è mai chi lascia davvero. Se uno dei due abbandona, probabilmente strappa un velo che l’altro non aveva la forza di strappare. Sa qual è la verità? Non ho mai parlato di un uomo o di una donna in amore, ma sempre di una coppia. Anche quando una coppia sembrerebbe non esserci più, resta tale. C’è sempre. In Amici mai lui e lei chiaramente si amano ancora. Anche se non si vedranno mai più, in qualche modo, si cercano».
Lei ha cercato l’amore?
«Ho cercato e mi sono dichiarato. Nella vita e nelle canzoni. La donna è il mistero profondo, la passione, l’idea, ma non c’è donna che mi abbia mai detto le cose che io ho detto a lei. Forse due parole che potevano vagamente avvicinarsi, ma solo vagamente».
«Scopare bene/scopare bene/questa è la prima cosa/Cercare un’altra donna/un’altra casa che non sia troppo vuota».
«Quella è una canzone sulla separazione e quando ti separi, nel bene e nel male, cerchi come prima cosa una liberazione. La prima è scopà. Sempre. Per tutti. Anche per quelli che si vergognano di dirlo. Ho cantato che non esiste sesso senza amore e ci credo, ma non ho mai sostenuto che il primo grado di emancipazione dopo un abbandono non sia il sesso. È la chiave di ogni rapporto, anche se spesso non basta. È difficile tornare con le tasche vuote da un amore che non c’è più, quando l’amore l’hai conosciuto da vicino. Qualsiasi altra cosa non gli somiglia».
È vero che dopo la sua separazione pensò di ritirarsi dalle scene?
«Alla prostrazione di quel periodo contribuì anche la lunga battaglia legale che intentai contro un paio di case discografiche. Prendevamo il 3 per cento sulle vendite ed eravamo totalmente in mano a chi ci faceva firmare un contratto. In quel caos, la separazione ebbe l’effetto di una bomba. Mi trasferii a Milano, non avevo una lira, non vedevo mio figlio e vivevo al Castello di Carimate dove componevo e dormivo in una stanza che pur essendo più grande, sembrava il prolungamento di quella in cui ero cresciuto. Fu un momento di grande sofferenza e non a caso del disco composto in quel periodo fatico a cantare i pezzi e non parlo mai».
Le difficoltà economiche la fecero soffrire?
«Non ho mai pensato alla vita da artista per diventare ricco e accumulare assegni o denaro, ma ho sempre reinvestito i soldi guadagnati per fare dischi e concerti. Quando dalla Rca passai alla Philips, i soldi aumentarono, ma tra un viaggio in America e l’altro per cercare nuove sonorità finirono in fretta. E mi trovai immerso in una serie di problemi che mi umiliavano e mi facevano star male».
A Milano conobbe Battisti.
«Se c’è stata una rivoluzione musicale in Italia l’ha fatta lui. L’addio alla canzone stereotipata lo dobbiamo a Lucio e a Mogol».
Si diceva che Battisti avesse un carattere difficile.
«Lo si diceva anche di me. Difficile e poco malleabile. “Antonello ha un carattere di merda”, dicevano, per essere precisi».
Ed era vero?
«Che io fossi poco malleabile e andassi per la mia strada era vero. Non guardavo in faccia a nessuno. Perché avevo il furore, ma ce l’ho ancora, della mia idea della musica: di quello che voglio fare. Deve essere così, altrimenti di artista non rimane nulla».
Aveva un carattere di merda insomma.
«Mi dicono di sì. Però penso sia una balla. Ho un cinismo e un’ironia di fondo che vanno capiti e, in ogni caso, il carattere di merda di allora è quello che fa il maestro oggi».
Ieri la pensava diversamente e fulminava chi le diceva maestro.
«“Non mi chiamate maestro”, dicevo, “o mi chiamate Antonello o mi chiamate testa di cazzo”. Adesso non ho cambiato idea e mi trovo incasellato in una definizione, in una scansìa in cui non volevo stare, però ci sono. Perché il maestro non resta immutabile, ma è in divenire. E ho scoperto che per tanti sono un maestro e che i ragazzi che suonano si rivolgono a me. Non posso e non voglio sottrarmi alla responsabilità del confronto. Ho il dovere di lavorare per loro e con loro, il che significa anche lavorare per il mio futuro. Il quarantennale di Sotto il segno dei pesci e il tour che affronto ha questo significato. Scambiare le esperienze, incontrarsi, interpretare la realtà contemporanea. So già quale sarà il mio futuro ma nel frattempo con quel disco storicizzo e raccolgo più generazioni».
E il ruolo di maestro?
«È come se fossi uno studente che può spiegare delle cose a chi vuole ascoltarle. Poi andrò per la mia strada e lo stesso farà il mio interlocutore. Quello che sta accadendo oggi in Italia, musicalmente parlando, però è fantastico. Non c’era un periodo  di questo tipo dagli anni ’70. Ci sono migliaia di ragazzi e ragazze che fanno musica e che cercano unità in questa frammentazione. Persone che mi vedono contemporaneo e non come un pezzo di passato».
Ha un bel rapporto con Ultimo.
«L’incontro con lui è stato un miracolo di Sanremo. La notte in cui non si sapeva dove fosse finito, era al telefono con me. Abbiamo fatto le 4 e 30 del mattino. Sono stato un amico e un amico non è quello che ti blandisce, né ti fa la ramanzina, ma quello che ti dice le cose come stanno. Ultimo è molto simile a come ero io alla sua età. È chiaramente mio figlio, solo che è partito da San Basilio, senza strumenti, mentre io venivo da un quartiere borghese e alla fine mi sono anche laureato. Ultimo è passato da 0 a 10 in pochi mesi. Ha avuto una strada stretta per arrivare dov’è ed è pronto a rinunciare a tutto. Mi piace. È andato sulla Luna senza neanche sapere il perché, ma non è da solo. Io sto con lui e con me tanti altri».
Pensa di essere stato sottovalutato dalla critica?
«Sicuramente. Ma non mi fa arrabbiare, un po’ perché riconosco il valore della critica e quindi può darsi che non sia stato bravo io a comunicare, un po’ perché i critici di professione che venivano mandati ai miei concerti desideravano magari andare ad ascoltare quelli di altri cantautori e allora, in quel caso, c’è poco da fare. È come andare a vedere un derby Milan-Inter se tifi per la Roma. Chi fa musica pensa che vendere significhi passare un milione di volte in radio: un abbaglio clamoroso. È la stessa differenza che passa tra popolarità e successo. Se sei famoso, non è detto che tu venda i dischi».
Ha rimpianti?
«Chi ricorda è fregato, ma certo quell’attesa, l’odore del vinile, il disco tra le mani sono piaceri che non esistono più. La società ci propone il televoto, ma al televoto io preferisco il voto. Un’azione.  Così come preferisco il cinema alla tv perché muoversi implica una scelta. Un parcheggio da trovare. La possibilità che piova. A casa no. A casa muovi solo il dito. Siamo diventati un indice. Un telefonino in cui tutto è compresso e schiacciato, un posto in cui c’entra tutto, ma che non ha profondità. La fantasia non è un mucchio selvaggio. Non è piana, costa fatica e ti costringe allo sforzo».
Cosa le è mancato?
«Forse un fratello maggiore. L’ho avuto in De Gregori, se non per età almeno per importanza. Abbiamo un rapporto unico e forse non a caso è nato il 4 aprile, lo stesso giorno di mio padre. Ogni tanto abbiamo discusso: ai tempi in cui faceva Banana Republic polemizzavo amabilmente con lui e con Dalla dicendo che cantavano le preghierine e le letterine e ancora prima, per sanare una ferita tra noi, per Francesco scrissi una canzone intitolata con il suo nome. Chi chiede scusa per primo, chi domanda cosa sia successo, chi fa il primo passo, in amore e in amicizia, secondo me è a posto con la sua coscienza. E non è vero che in passato Francesco avesse un pessimo carattere, era solo molto selettivo. Ma lo sono anche io».
Come sta Antonello Venditti con Venditti Antonello?
«Ho un grande rapporto con me stesso, a volte siamo in 3 o in 4, nel dibattito notturno. Più passa il tempo, meno dormi e più fai l’alba a riflettere. C’è quello di destra, quello di sinistra, l’ateo, il credente. C’è un bel casino, a casa mia, a una certa ora della notte».
Destra, sinistra, centro, sovranismo. Salvini le è simpatico?
«È una bella domanda. Vedo tutto il suo potenziale: creativo e distruttivo. Lo vedo come un oggetto, Salvini. E vedo anche il razzismo manifestato e negato a seconda della felpa che indossa. Lo vedo in tutte le sue forme. Divido il Salvini uomo che fa i selfie e tutto quello che quei selfie producono. Ha un linguaggio efficace».
In che senso?
«Che parla il linguaggio dell’epoca in cui vive, la vera differenza che c’è tra destra e sinistra nel 2019 è prima di tutto semantica. In questo tempo, devi avere il linguaggio del nostro tempo. Sarebbe interessante trovare un giovane uomo o donna di sinistra che abbia la capacità di comunicare con gli altri come fa Salvini. Sul tema dei migranti, non possiamo non dire che la politica di Minniti era più a “destra” di quella di Salvini. Cosa c’è di diverso? Il linguaggio. Perché Minniti non è stato eletto neanche nel suo collegio?».
Perché?
«Perché Minniti era un corpo estraneo, in un corpo già estraneo al Paese come è oggi il Pd. Non era l’incarnazione di un’idea. Era disorganico a una cosa già disorganica di per sé. Mentre Salvini è organico a tutto quel che dice. Lui muta. Mette una felpa della Polizia e diventa poliziotto. Ha una capacità di immedesimazione fenomenale. È credibile. E gli altri lo attaccano sul piano sbagliato. Sulla Diciotti, la gente vede i risultati e per la stessa comunità europea che pure ci ha attaccato a ripetizione il caso Diciotti è chiuso. Salvini ha agito in nome di un superiore interesse nazionale, l’hanno capito tutti. Tutta Europa. In Italia invece siamo alla procura che manda un avviso di garanzia e in questa confusione di linguaggio e di poteri, alla fine, le ragioni di chi grida allo scandalo sono deboli, perdenti, inutili. Vuoi smontare un governo per l’alzata di scudi di una procura? Dove pensi di andare?».

E lei, a 70 anni, dove pensa di andare?
«Nel futuro. So che è difficile immaginare me stesso proiettato nel domani perché come diceva Nanni Moretti la clessidra si restringe sempre di più e il futuro per un ragazzo di 18 anni è molto diverso dall’idea che ne ha un settantenne come me. Ma sono ottimista. Invecchiando, le cose brutte tendo a dimenticarle e a non classificarle più. Sta cambiando tutto, sono curioso di vedere tra vent’anni, sulla Treccani, come saranno definiti uomo e donna».
Cosa ha imparato dalla vita?
«Ho cercato di imparare a vivere. Spero di continuare a lungo».