Il Messaggero, 7 marzo 2019
Kubrick ricordato dall’amico italiano
«C’è un gran silenzio, adesso. Da quando non c’è lui, la vita si è rallentata». A vent’anni esatti dalla scomparsa di Stanley Kubrick – 7 marzo 1999 – e a 4 anni dal bel film di Alex Infascelli che ha raccontato il suo sodalizio con il regista in S is for Stanley, (ispirato al suo libro Stanley Kubrick e me) Emilio D’Alessandro è tornato a vivere nella sua città natale, a Cassino. L’uomo che Kubrick scelse come autista e tuttofare, confidente e garzone (la spesa era «sempre la stessa: caffè, filetto di manzo, coca cola, hot dog. E pesce quando scoppiò la mucca pazza»), oggi vive una vita ritirata. «Il telefono non squilla più, con lui era rovente», ricorda. Lo era così tanto che la moglie di Kubrick, stufa di non riuscire a parlare col marito, impose a lui ed Emilio una linea privata.
Cosa le rimane del suo amico?
«Una foto insieme, che porto sempre con me. E il senso di un’amicizia irripetibile».
È in contatto con la famiglia?
«Sì. Con la moglie ci telefoniamo ogni tanto: questo mese parteciperemo a proiezioni e incontri per ricordare Stanley».
Qual è il ricordo più caro che ha di lui?
«Quando cercava il mio parere sugli attori. Ero sempre sincero: Charles Bronson, per esempio, mi piaceva più di Jack Nicholson. Una volta mi chiese quale fosse il suo film che mi piaceva di più. Risposi Spartacus. Mi fulminò con lo sguardo: non era d’accordo. Ma non si è mai arrabbiato con me».
Cosa lo faceva arrabbiare?
«I giornali. Diventava infelice di fronte a cose che non avrebbe mai potuto controllare. Non gli piaceva stare in mezzo alla gente, non amava rispondere alle domande del pubblico. Diceva: Emilio, preferisco che le persone si sforzino da sole. Facciamo fare qualcosa pure a loro».
Oggi l’avanzata di Netflix lo farebbe arrabbiare?
«Penso che sarebbe curioso di sperimentare. Magari all’inizio sarebbe diffidente, fece così anche con i computer. Li odiava ferocemente, poi ne capì l’utilità e non si staccò più».
Gli attori più affettuosi con lui?
«Tom Cruise, Matthew Modine, Ryan O’Neal. Con Ryan ancora oggi ci scambiamo qualche sua foto».
Qual è la cosa più impegnativa che ha fatto per lui?
«Giravamo Shining, nevicava forte. Stanley abitava a un chilometro e mezzo dagli studi, ma la strada era ghiacciata e c’era una salita ripidissima. Gli avevo procurato una stanza là, ma lui si era messo in testa di tornare a casa: doveva andare da cani e gatti. Ho dovuto scaricare un camion enorme, di quelli a 16 marce, pieno di obiettivi e stativi, e poi con quel veicolo sproporzionato l’ho portato a casa. A passo d’uomo».
La cosa più bella che Stanley ha fatto per lei?
«Mi fece un regalo nel 1994, quando pensai di ritirarmi. Un candelabro d’argento, con la sua firma incisa».
Cosa lo rendeva felice?
«La famiglia, i suoi animali. Fare beneficenza. E girare film, soprattutto Full Metal Jacket. Era entusiasta del cast. Diceva che non aveva mai lavorato con attori così giovani e infallibili».
Ricorda la prima volta che l’ha visto?
«Era il 1971, sul set di Arancia Meccanica. Lo scambiai per il giardiniere».
E l’ultima?
«La sera prima che morisse. Ero andato a salutarlo nel suo ufficio a casa. Era stanco. Lavorava tenendo conto sia dell’orario europeo che di quello americano, non staccava mai. I dottori gli avevano detto di rallentare, ma lui non era mai soddisfatto. Diceva che le cose venivano bene solo se le faceva lui, che non poteva delegare. Dei dottori se ne fregava».
E poi?
«Mi chiamarono il giorno dopo per dirmi che era morto. Mi precipitai a casa, abbracciai la moglie. Sapevo che, dopo di lui, non avrei più lavorato con nessuno».
Come pensa che vorrebbe essere ricordato oggi?
«Guardando i suoi film. Uno in particolare: Eyes Wide Shut. Gli ha dato tutto quello che gli restava».