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 2019  marzo 07 Giovedì calendario

La polizia giapponese è la più cattiva

Se siete dei fan dei manga del giovane detective Conan o dei libri gialli di Keigo Higashino forse è meglio che passiate oltre, perché nel sistema giudiziario giapponese non c’è nulla di divertente o avventuroso. Dovremmo forse scomodare Kafka per trovare qualcosa che si avvicini a una realtà di uno dei Paesi più amati dei tempi moderni, il Giappone, che sa offrire a chi vi abita e a chi lo visita esperienze uniche, tra le quali un bassissimo indice di criminalità comune, che attingono dalla tradizione aggiornata e coniugata con un alto senso del rispetto sociale. Ma che al contempo nascondono lati oscuri che si trascinano dallo stesso passato da cui proviene la tradizione di cui sopra. Il tema è di particolare attualità in questi giorni per la vicenda che riguarda l’ex capo di Nissan e ceo di Renault, Carlos Ghosn, uscito ieri dal carcere dopo 108 giorni di detenzione con l’accusa di avere commesso diversi reati finanziari e ripetutamente interrogato dalle autorità giudiziarie nipponiche senza la possibilità di essere assistito dai suoi legali. Possibile? In Giappone sì, sebbene la stessa Costituzione riconosca tra i principi fondamentali il diritto alla difesa dell’imputato e sostenga esplicitamente che «nessuna persona può essere condannata o punita nei casi in cui l’unica prova sia una sua confessione».

IMPOSIZIONI AMERICANE
Ma come ben sappiamo quella Costituzione i giapponesi non se la sono mica data loro, è stata loro imposta durante l’occupazione militare americana. Ne consegue che anche quei principi solenni e liberali siano stati imposti e come tali, nella pratica, vengono regolarmente disattesi. Il sistema giudiziario giapponese infatti, parte da presupposti che sono diametralmente contrari, fondati su regole non scritte che da noi avrebbero potuto essere ritenute comuni in epoca preilluministica. Nella pratica nipponica infatti l’imputato non ha diritto alla difesa fintanto che non sia trascorso un certo periodo in cui può accadere che “gli venga in mente” di confessare tutto. Un periodo di tempo piuttosto lungo visto che per legge chiunque può essere trattenuto dalla polizia per un massimo di 23 giorni, e in quel lasso di tempo tutto è possibile, in quanto per l’appunto gli avvocati non hanno il permesso di assistere agli interrogatori e i magistrati non hanno nemmeno l’obbligo di registrarli. E anche dopo quei 23 giorni di oblio, qualora il presunto colpevole sia trattenuto in carcere, non sempre gli è consentito farsi assistere da un avvocato durante gli interrogatori. Secondo i dati più aggiornati il tasso di condanne in Giappone nei confronti dei malcapitati che arrivano ad affrontare un processo è addirittura del 99,8%.

METODO INFALLIBILE
Una sorta di medaglia all’infallibilità del sistema giudiziario, ma ovviamente non è affatto così. Gran parte di quelle condanne, l’89%, arriva tramite confessione, e molte di quelle confessioni arrivano dopo quegli illeciti interrogatori, torture psicologiche al termine delle quali gli accusati preferiscono dichiararsi colpevoli pur di farla finita. Tempo fa l’Economist raccontò la storia di Iwao Hakamada, per 46 anni nel braccio della morte, e liberato dopo che la sua difesa ha accusato gli inquirenti di aver commesso numerosi soprusi nei confronti dell’assistito, al fine di farlo confessare per un crimine non commesso. E quello di Hakamada non è un caso isolato, perché di storie del genere ce ne sono a decine. Nel 2012 uno studente di 19 anni fu arrestato con l’accusa di aver inviato una serie di email nelle quali minacciava che avrebbe attaccato una scuola elementare e ne avrebbe ucciso gli alunni. Il giovane, che aveva confessato dopo qualche giorno di detenzione, fu scagionato solo dopo che il vero colpevole ebbe inviato una mail al famoso avvocato Yoji Ochiai e ai media locali, spiegando che attraverso un virus era riuscito a servirsi degli account di innocenti utenti Internet e a inviare le minacce. 

ABOMINIO
Il suo scopo dichiarato era quello di «svelare l’abominio della polizia e dei pubblici ministeri». L’espediente in un certo senso andò a segno, tanto che l’avvocato Ochiai ne fece una campagna di pressione pubblica, ma il caso di Ghosn dimostra che ci vuole ben altro per sradicare il malcostume penale. In realtà c’è anche chi ritiene che l’utilizzo spregiudicato della confessione più o meno estorta sia al contrario dovuto a un eccesso di garantismo nei confronti dei cittadini. Yoshiki Kobayashi, che ha lavorato 25 anni come detective per l’Agenzia di polizia nazionale, un po’ come il Conan dei manga di cui parlavamo, ritiene che questo andazzo sia una conseguenza dei limitati poteri di cui dispongono gli investigatori. «La polizia di altri Paesi», sostiene Kobayashi, «si avvale di operazioni sotto copertura o di intercettazioni. In Giappone ciò non ci è consentito, e tutto quello che possiamo fare è fare affidamento sulle confessioni». Secondo il detective questi poteri investigativi sono preclusi per ragioni storiche, come conseguenza degli abusi perpetrati dalla polizia nipponica prima della guerra. Resta il fatto che l’Arcipelago è il Paese più sicuro tra quelli del G20: il reato più comune è il furto di biciclette e solo il 16% della popolazione resta vittima di un qualche crimine.