7 marzo 2019
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Biografia di Shaquille O’Neal
Shaquille O’Neal (Shaquille Rashaun O.), nato a Newark (New Jersey, Stati Uniti) il 6 marzo 1972 (47 anni). Ex cestista, di ruolo centro (Orlando Magic, L.A. Lakers, Miami Heat, Phoenix Suns, Cleveland Cavaliers, Boston Celtics; Nazionale statunitense), vincitore di quattro titoli Nba (tre con gli L.A. Lakers, uno con i Miami Heat) e, con la Nazionale, del Campionato mondiale del 1994 e dei Giochi olimpici del 1996. Annoverato tra i migliori cestisti della storia dell’Nba • «Scrittore, autore televisivo, rapper, cronista, critico, commentatore, showman, poliziotto, attore, marito modello e – ma solo alla fine – giocatore di pallacanestro. Questo è Shaquille O’Neal, uno che riempiva gli spazi morti degli All-Star Game ballando la break dance davanti a milioni di persone mentre tutti erano impegnati a sentire cosa volesse l’allenatore. Uno che ha saputo segnare 62 punti contro i “rivali” Clippers solo perché avevano chiesto alla sua famiglia di pagare il biglietto per assistere al match. Uno che ha saputo dominare in lungo e in largo sui parquet del mondo collezionando anelli [cioè titoli Nba – ndr] e record su record» (Gennaro Arpaia) • «O’Neal crebbe a Newark, New Jersey, città con un tasso di criminalità impressionante. La sua famiglia viveva col sussidio. Sua madre, Lucille, lo diede alla luce quando aveva soltanto diciassette anni e non era sposata. Era grande e grosso già da neonato. […] Crebbe in fretta, prendendo da sua madre, che è alta un metro e novanta, e suo nonno, che era alto due metri e quindici. O’Neal a tredici anni aveva già superato il metro e ottanta. Lucille conobbe il patrigno di Shaq, Philip Harrison, quando lui aveva solo un anno. Voleva che suo figlio avesse una figura paterna, ed era innamorata. Si sposarono in fretta e, poco dopo, Harrison entrò nell’esercito nella speranza di mettere da parte un po’ di soldi per la nuova famiglia. Presto, in casa adottò lo stesso metodo disciplinare che aveva imparato in caserma, dettando regole con il pugno di ferro, fermo nella propria convinzione che, se avesse tenuto i figli in riga, questi non si sarebbero messi nei guai. La nonna di O’Neal, Odessa, gli dava conforto quando Harrison lo puniva per una rissa a scuola, o con i ragazzini del vicinato. Gli dava una fetta di torta, un po’ di latte, e gli diceva: "Smetti di piangere, ora. Andrà tutto bene. Sei il mio bambino. Non ti preoccupare". Fin dalla più tenera età, O’Neal fu condizionato da Harrison a fare sport e andare bene a scuola. Ma gli altri bambini lo facevano soffrire a causa della sua stazza. Era facile affibbiargli dei soprannomi. Big Foot. Sasquatch. Freak-quille. Shaquilla Gorilla. O’Neal scoprì che il suo senso dell’umorismo avrebbe potuto aiutarlo a sfuggire al bullismo. È più facile che la gente ti accetti, se la fai ridere. Anche la musica, però, era un modo per fuggire. Da giovanissimi a Newark, O’Neal e suo cugino Kenny erano fanatici dei primi musicisti hip-hop anni Ottanta: DJ Quik, Geto Boys, N.W.A.» (Ian Frisch). «Il primo pensiero dello Shaq adolescente non era il basket, bensì la musica, ma, a 14 anni, ecco la svolta della sua vita. Si trovava in Germania per seguire “papà” Phil nei Marines, e un giorno, mentre stava passando il tempo facendo due tiri a canestro in una base militare, conobbe Dale Brown, l’allora allenatore degli Lsu Tigers, che, desideroso di aggiungere nuovi talenti al suo college, gli chiese quanti anni avesse e da quanto tempo giocasse a basket: vedendo in lui un futuro fenomeno, gli chiese di entrare nella sua squadra. SHAQ rispose che gli sarebbe piaciuto provarci ma che aveva solo 14 anni e che non aveva mai toccato un pallone da basket in vita sua al di fuori delle basi dei Marines. Questa risposta lasciò basito coach Brown, che scoprì di aver trovato un “lungo” che in futuro avrebbe potuto dominare la scena per molti anni. Phil, dopo l’esperienza avuta in Germania, decise di rientrare in patria anche per permettere a Shaquille di provare a sfondare nel mondo della pallacanestro e lo portò a San Antonio, in Texas, dove lo iscrisse alla Cole High School, in cui Shaq giocò per due anni. Una volta apprese le nozioni di base, […] divenne un vero e proprio talento, trascinando la sua squadra al titolo nazionale del Texas e perdendo solo una partita» (Federico Buffa). «La sua dedizione allo sport crebbe mentre Harrison, suo padre, amministrava la disciplina in modo sempre più violento. Se O’Neal dava segni di distrazione dall’obiettivo della sua vita, o se si metteva nei guai a scuola, Harrison lo colpiva. Un giorno dell’estate tra la terza e la quarta superiore, racconta O’Neal, […] Harrison tornò a casa dal lavoro e gli diede un pugno in faccia. "È ora che tu faccia sul serio", disse Harrison, paragonando suo figlio a Jon Koncak, che era appena stato reclutato dagli Atlanta Hawks per quindici milioni di dollari. "Vedi quanti soldi potresti fare se solo ti tenessi fuori dai guai?" O’Neal continuò a concentrarsi sul basket giocando nella lega dilettanti d’estate, mentre si preparava per l’ultimo anno di superiori. A quel punto, era già in cima alle classifiche dei migliori atleti under-18 di tutto il Paese. Era anche il più “fico” della scuola, e usava la musica per innalzare il proprio status sociale. Fece il remix della canzone ufficiale della scuola e ci rappò sopra con i suoi compagni. Faceva il dj alle feste. E, verso la fine della stagione, scelse di iscriversi all’Università statale della Louisiana, la cui squadra era guidata dal coach Dale Brown. […] O’Neal si sentiva legato a quell’uomo, che aveva riconosciuto il suo potenziale quando era ancora giovanissimo. Ma un altro motivo per cui O’Neal scelse la Lsu fu la distanza. Aveva bisogno di allontanarsi da suo padre. […] Dopo il primo anno di Lsu, O’Neal puntava già all’Nba. Durante la stagione 1990/91, fu il primo giocatore a guidare le classifiche di punti, rimbalzi, percentuale di canestri e stoppate. Fu anche nominato All-American e Giocatore dell’anno. Nel tempo libero, lo si sarebbe trovato nella sua stanza a scratchare, o in giro per Baton Rouge sulla sua Ford scassata, ad ascoltare hip-hop a tutto volume. […] Dopo il suo anno da matricola, O’Neal […] era pronto per il professionismo. Quando gli Orlando Magic individuarono O’Neal come prima scelta al mercato Nba del 1992, la prima cosa che fece lui fu chinarsi e baciare sua madre. Con i quasi cento milioni di dollari del contratto e degli sponsor, O’Neal comprò una casa fuori Orlando, una casa per sua nonna Odessa, e un’altra per i suoi genitori. Poi portò sua madre a fare shopping e si fermò a un negozio di attrezzature audio, dove comprò una coppia di giradischi professionali. Alla cassa, Lucille disse all’addetto che suo figlio voleva pagare a rate. O’Neal si chinò, la baciò e disse: "Mamma, te lo assicuro, quei giorni sono finiti". Dopo essere stato nominato Recluta dell’anno, O’Neal fu invitato all’Arsenio Hall Show. Invece di farsi semplicemente intervistare, chiese di rappare insieme ai Fu-Schnickens, uno dei suoi collettivi hip-hop preferiti. […] Nonostante la fama, non riuscì a ottenere un titolo con i Magic. Per questo incolpò se stesso. […] Nel 1996, l’ultimo di O’Neal con i Magic, sua nonna Odessa morì. O’Neal ne fu devastato. Ogni volta che aveva dei problemi sul campo, era abituato a tornare al suo luogo felice, vicino a lei, a bere latte e mangiare torta. Nella sua autobiografia ricorda di essere rimasto così sconvolto che lasciò il funerale prima della fine e diede un pugno alla porta della chiesa uscendo. Anche se la squadra riuscì ad arrivare ai playoff quell’anno, fu spazzata via da Michael Jordan e dai suoi Bulls. Non avendo ancora vinto un campionato con i Magic, e passando ai Lakers come free agent [giocatore svincolato – ndr], O’Neal cominciò a percepire la pressione della mentalità […] dell’Nba. Come mai uno dei migliori centri del campionato non era riuscito a condurre una squadra al titolo? Dopo aver perso la finale della Western Conference alla sua prima stagione con i Lakers, molti detrattori dissero che la sua esuberanza fuori dal campo, con i film e gli album rap, era più importante che trionfare nello sport che l’aveva reso una star. I suoi film non ebbero successo a livello di incassi (ma lo resero popolarissimo, specialmente tra i bambini) e, per molti aspetti, il pubblico cominciò a vederlo come una caricatura di se stesso. Per molte persone, aveva permesso alla fama di distrarlo dalle sue priorità come atleta. Ma, per come la vedeva lui, stava solo seguendo le proprie passioni. […] Dopo due stagioni, i Lakers assunsero Phil Jackson come allenatore. La prima cosa che fece fu prendere O’Neal da parte. Fu chiaro e trasparente: basta film, basta rap, basta feste e basta fare il coglione in giro. O’Neal obbedì. Era pronto a mettere i suoi hobby in pausa per la pallacanestro» (Frisch). O’Neal mise allora pienamente a frutto il proprio potenziale atletico, seguendo i consigli dell’allenatore Jackson e coordinando in campo il proprio gioco con un altro grande campione ancora ai primi anni di professionismo, Kobe Bryant. «Dal trio Jackson-Shaq-Kobe nascerà […] un three peat [tre conquiste consecutive del titolo Nba – ndr] indimenticabile tra il 2000 e il 2002, prima del “grande freddo” tra i due protagonisti in campo. Avevano la Nba in mano, Kobe e Shaq erano amati e vincenti, ma […] la rivalità fra i due portò ad una inevitabile frattura. La domanda più ricorrente era: chi va via dei due? La risposta fu facile, perché Shaq era un vero emigrante della vita e non aveva alcuna radice da estirpare per cambiare aria. Nel 2004 modifica nuovamente la costa di appartenenza, ma stavolta la meta si chiama Miami. Un anno prima, un ragazzino di belle speranze era stato reclutato dagli Heat: […] si chiama Dwyane Wade. Lo stesso ragazzino che, in coppia con O’Neal, regalerà a Miami il primo storico titolo nel 2006. Shaq andrà via dalla Florida solo nel 2008, e in quattro anni di permanenza diventerà un vero e proprio punto di riferimento per la comunità. […] La sua carriera da dominatore assoluto del parquet, in pratica, finisce a Miami. Ma non smette di cambiare maglia: Phoenix, Cleveland e poi Boston, dove si ritirerà ufficialmente nel 2011. Semplici apparizioni, ma ovunque ha saputo lasciare il segno. Da ogni parte nel mondo cestistico lo sconforto per il suo ritiro si è fatto sentire, ma lui ci ha messo poco, a tornare in scena. Prima da combattente di wrestling, poi da co-proprietario di una franchigia (i Sacramento Kings), alla fine da stimato critico sportivo in tv» (Arpaia) • Dopo il ritiro, ha inoltre ripreso a coltivare intensamente l’antica passione per la musica, come rapper e disc jockey (DJ Diesel). «Fare il dj è sempre stata la passione di O’Neal, fin dall’adolescenza, ed è rimasto un hobby costante – anche se privato – per tutto il tempo che ha passato in Nba. […] Ora che non gioca più, negli ultimi anni è apparso in pubblico come dj sempre più spesso, a volte anche in discoteca, mostrando il suo stile ibrido tra trap e hip-hop. Ha anche fondato “Shaq Fu Radio”, una app di live streaming. […] Per O’Neal, che è stato sotto i riflettori per tutta la sua carriera, la mezza età è diventata la sua occasione per […] iniziare a fare qualcosa che lo renda davvero felice, al di là dello sport. […] "Il basket è qualcosa che fai. Non è chi sei", ha detto […] in un’intervista» (Frisch) • «O’Neal non ha mai avuto paura del marketing – che si tratti di vendere se stesso o altro. Ha messo piede ovunque ormai, in compagnie come Google, su cui ha investito più di un milione di dollari negli anni Novanta; Arizona Iced Tea, dove ha una sua intera linea di bevande; Zales, Buick, Icy Hot, e Gold Bond, per la quale ha fatto da protagonista di alcuni spot pubblicitari; Muscle Milk e Vitamin Water; una serie tv sugli autolavaggi; e ha pure varie azioni in […] Pure e Chateau, celebri catene di night club a Las Vegas. O’Neal ha fatto leva sulle sue attività finanziarie in Chateau per avviare la sua carriera da dj. Ma per O’Neal questi investimenti non servono solo a togliersi sfizi. […] I suoi impegni lavorativi consistono principalmente in appuntamenti e riunioni dove si punta ad ingrandire e stabilizzare il suo “marchio”, non solo per preservarne il nome di modo che sia un riferimento per la collettività, ma anche a beneficio della stabilità finanziaria della sua famiglia. A questo punto della vita, dice, è davvero la sua più grande priorità» (Frisch) • Cinque figli: una da una relazione giovanile e quattro dall’ex moglie, tra cui Shereef (2000), promettente cestista la cui carriera si è interrotta nel 2018 in seguito al riscontro di un problema cardiaco. Dal 2014 O’Neal è sentimentalmente legato alla modella Laticia Rolle (classe 1988) • «19 stagioni Nba. Ha vinto, distrutto, guadagnato. Quattro titoli, Mvp [«Most Valuable Player», il riconoscimento assegnato al miglior giocatore Nba dell’anno – ndr] di tre finali, più di 28 mila punti, 12 mila rimbalzi, 286 milioni di stipendio. Non solo basket: anche sette film, album da rapper, svariate apparizioni in tv. […] Per tutti è stato Shaq. Un gigante, anche sulla bilancia: 150 kg per 2,16 metri. Tra i cinque migliori centri di tutta la storia Nba. Il post-Jordan e il pre-Bryant. Bravo anche a passare la palla, a livello di Bill Walton. Un mammuth che spazzava via le difese. Sapeva sgusciare. E, se gli girava male, tiè, sbriciolava pure il canestro. Quando prendeva posizione non c’era modo di spostarlo, né di abbatterlo. “Diesel” il suo soprannome. Perché quando carburava andava lontano. Per stopparlo gli avversari avevano inventato il fallo preventivo: gli andavano addosso a gioco fermo, quando non aveva palla. La manovra si chiamava Hack-a-Shaq, era punita con i tiri liberi: per le squadre nemiche era un sollievo, perché Shaq ai rigori era un disastro. Nella partita Lakers-SuperSonics sbagliò 11 tiri dalla lunetta, un record all’incontrario. Forse gli sembrava troppo facile segnare da lì, senza nessuno addosso. Forza, muscoli e fame leggendaria: bistecche condite da altra carne rossa. Sulle porte di casa aveva messo il logo di Superman, tatuato anche sul braccio. Un clown, un istrione: il suo mito era Magic Johnson, uno che si metteva a Harvard Square fingendo di essere una statua e che a Halloween si travestiva da drag queen. Tante stravaganze, molta indolenza. In palestra aveva fatto mettere un divano (era nelle clausole), per poter schiacciare un pisolino. A letto faceva anche le interviste: bofonchiava con il registratore sotto le lenzuola. Non un santo: arrivava tardi agli allenamenti, prendeva a male parole i suoi compagni (appena si trasferiva in un’altra squadra). Gli piaceva trovarsi soprannomi, come “Shaqness”. Un tiratardi, mai mancato a un party. “Non so come sono riuscito a vincere il titolo nel 2006: a Miami uscivo tutte le sere”. Un mammone: aveva convinto sua madre Lucille a scrivere un libro, e alla presentazione, visto che tutti volevano la sua firma, lui, premuroso: “Ma’, va bene per te?”. Negli ultimi anni aveva provato a mettersi a dieta: “Non capisco: da ragazzo ero scheletrico; mi hanno fatto irrobustire, e ora dicono che sono troppo grasso”. Sei finali Nba giocate, tre consecutive vinte con Los Angeles, una con Miami. Phil Jackson, coach dei Lakers, lamentava la sua scarsa vena difensiva: “Se solo Shaq si allenasse un po’ di più…”. Ma Shaq si amava così, elementare e brutale: si faceva bastare. Anche con l’orrore dei 5.000 tiri liberi sbagliati. Otto anni a Los Angeles e l’addio dopo la sconfitta con Detroit nel 2004, per incompatibilità con la stella Bryant, che sentiva il suo regno minacciato. Soprattutto dalla personalità dell’altro, eroe di un’America semplice, che non si prendeva troppo sul serio» (Emanuela Audisio) • «Il mio più grande rammarico? Aver perso circa 200 partite (causa infortuni) mentre viaggiavo a 25 punti di media a partita. Avrei potuto segnare 5.000 punti in più. […] Nella mia carriera ho giocato solo al 30% delle mie possibilità. Ho avuto una grande carriera, ma non ho mai avuto la possibilità di mostrare quello che realmente ero in grado di fare. Sono stato “costretto” a dominare in area. Ho avuto la possibilità di allargare il mio range di gioco, ma non l’ho mai dimostrato. Il mio obiettivo, fin dall’inizio, era quello di diventare il giocatore più dominante di sempre: più di Wilt [Wilt Chamberlain (1936-1999) – ndr], più di Michael [Michael Jordan – ndr], più di tutti quanti. La Nba ha letteralmente cambiato le regole a causa mia: l’introduzione della difesa a zona, l’Hack-a-Shaq (che ora vogliono cercare di limitare). È anche grazie a queste piccole cose che un giocatore può considerarsi dominante».