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 2019  marzo 06 Mercoledì calendario

Intervista a Tommaso Ragno

nattuale più che storico, uno spazio scenico puramente immaginoso: così il regista Roan Johnson ha tradotto la Vigata di Camilleri di fine ’800 ne La stagione della caccia (in onda su Rai1 con ascolti formidabili). Dentro quella macchina dagli ingranaggi lenti, proverbialmente anti-televisivi, come prelevato dal teatro che è il suo amnio, Tommaso Ragno ha incarnato il marchese Filippo Peluso e suo fratello Don Totò (un virtuosismo di pura bravura). La sua faccia-paesaggio che cambia col variare della luce, del tutto atipica nel cinema italiano (lo vedremo anche nel nuovo film di Nanni Moretti), ha catturato lo spettatore di fiction, che l’aveva notato nel gioiello Il Miracolo di Niccolò Ammaniti.
Ha provato nostalgia del diaframma tra sé e il pubblico garantito dal buio del teatro? E del semi-anonimato?
Nessuna nostalgia. Il mio è un lavoro legato al corpo e si svolge nel regno dell’effimero davanti a un pubblico vivente, a differenza di quello di uno scrittore che può contare su un pubblico di lettori anche dopo la sua morte. Quanto all’essere esposti al giudizio, per un attore è necessaria una certa dose di presunzione e masochismo, oltre al talento, per salire su un palco.
La televisione dissipa un’aura, apre all’agorafobia, distrugge la simultaneità magica del teatro?
È una domanda molto bella a cui è complesso rispondere. L’aura è il manifestarsi di una lontananza, per quanto vicina essa sia. Qualcosa di molto simile a un sogno o a un innamoramento. Accade quando si guarda uno spettacolo teatrale o musicale dal vivo, non legato alla sua riproducibilità tecnica come avviene col cinema, la tv (per la radio è un altro discorso, proprio perché non legata alle immagini) o quando si è di fronte a un’opera d’arte. È in questi “luoghi” che avviene l’evento aurale, irripetibile, nel qui e ora.
È vivo il teatro in Italia? Che ricordo ha di Strehler e di Carmelo Bene? Esistono ancora attori irresponsabili, liberi?
Più che vivo, mi pare in stato di convalescenza sin da quando ho iniziato. E non è una cosa negativa. Ho iniziato frequentando la “Paolo Grassi” di Milano, facendo per trent’anni soprattutto teatro con Martone, Cecchi, Ronconi, Servillo. Di Strehler ho un ricordo di un genio fatto di magia, vigore, passione, cultura immensa, e un pizzico di cialtroneria, perché un teatrante è anche questo, ma soprattutto è portatore di un messaggio “malgrado sé stesso”, come scrive Jouvet. Di Carmelo Bene penso sia stato il più grande artista del Novecento italiano. Attori “irresponsabili” e morali in senso autentico, visto che estetica ed etica non sono disgiunte: Carlo Cecchi fra tutti. E Toni Servillo. Sono stato abbastanza fortunato da poter servire dei re della scena in Italia.
Il cinema italiano le piace?
Mi piace quando torna capace di ciò che in passato è stato. Penso alla prova straordinaria, quasi grotowskiana per capacità di svuotamento di sé, di Alessandro Borghi nel film Sulla mia pelle.
Il film più importante della sua vita.
2001 Odissea nello Spazio continua a turbarmi ogni volta che lo rivedo. Il ruolo che più mi sarebbe piaciuto fare tra tutti i personaggi della storia del cinema è la scimmia di quel film.
A cosa pensa quando recita? C’è nell’attore la “dimenticanza di sé” di Giorgio Manganelli?
Amleto, dopo aver visto uno degli attori convocati da lui a corte commuoversi recitando un brano che descrive Ecuba, rimasto solo si domanda: “Chi è Ecuba per lui e lui per Ecuba?”. Per me è tutta qui la domanda su cosa sia recitare. Cioè: inizia a cercare la tal cosa chiamata personaggio che è una convenzione e forse la tal cosa verrà a cercare te. Per arrivare su un orizzonte mitico che non è più legato a te ma a qualcosa di più grande. Più che dimenticarsi, è, come dice Umberto Saba in un verso all’inizio dell’Isola di Arturo della Morante: “E io, se in lui mi ricordo, ben mi pare”.
Una certa dose di patologia cognitiva è connaturata nell’attore. Di quali psicosi soffre?
La motivazione a fare l’attore deriva da una fissazione dello sviluppo. Crescendo te ne fai una ragione e la incorpori nella tua vita. Se riesce a diventare il tuo lavoro sarai abbastanza fortunato da non finirne schiacciato. Come dice la scimmia di Kafka in Relazione per un’accademia quando viene affidata al primo istruttore: “Vidi due strade a me aperte dinanzi: o il giardino zoologico o il varietà. Non esitai un attimo. Mi dissi: punta con tutte le tue forze al varietà, quello è lo scampo, il giardino zoologico è solo un’altra gabbia, se finisci lì sei perduto”. Il giardino zoologico ovviamente è il manicomio. Di qualunque tipo uno se lo figuri.