Vera — cioè autentica per ciascuno di noi, universale — ma in questo caso anche reale — veramente accaduta a una persona sola. Lo fa nel modo che i lettori italiani hanno conosciuto in La Figlia, fra i romanzi più belli e celebrati del 2012, il racconto della vita e del suicidio di Ana Mladic, figlia di Radko, che si spara a 23 anni con la pistola del padre amatissimo, il "boia dei Balcani". Qui di nuovo Usón racconta in bilico fra romanzo e resoconto, anni di ricerche sui fatti, ricordi, follie, sogni, storia personale e storia recente, politica, autobiografia. La protagonista è Sandra Mozarovski, l’Ornella Muti del franchismo: una bambina dagli enormi occhi verdi obliqui, labbra inimmaginabili, protagonista della stampa rosa nella stagione in cui il nudo femminile si affaccia al cinema come una controllata forma di liberazione dalla censura, promessa di anelata democrazia. Il destape, lo spogliarello è un osso in pasto al popolo. Sandra gira il primo film a 10 anni (dieci!) l’ultimo a 18, quando muore cadendo dal balcone di casa sua, la casa dove viveva coi genitori. Forse si è suicidata. Forse era incinta. Forse era incinta del Re, di Juan Carlos, e dunque — invece — è stata eliminata. Dai Servizi, da qualcuno che non ha lasciato traccia e più nessuno, per decenni, si è più chiesto niente di lei. L’assassino timido nel titolo prende in prestito e forza un poco una frase di Cesare Pavese: «I suicidi sono omicidi timidi, masochismo invece che sadismo». Incrocia la storia di Sandra con la biografia personale e familiare dell’autrice, sua coetanea. In definitiva racconta la storia politica di quegli anni — che sono la radice di questi.
Ancora una volta un suicidio, al centro del racconto.
«È la mia storia. La mia vita. Sono una sopravvissuta di un’epoca in cui si andava nella stessa settimana ai funerali dei nonni e a quelli degli amici. L’eroina, la vita temeraria, il rischio, nessuna paura della morte, al contrario. Era una concreta possibilità di fuga dall’oppressione. Una tentazione permanente. Dovevo essere morta, questa è la mia sensazione. Questi anni da sopravvissuta sono stati un regalo. Sei come un fantasma che continua a vivere, sei nel puro presente, direbbe Wittgenstein. Se rimbalzi dal pozzo nero, se torni alla vita allora sei libera».
Wittgenstein, Camus, Pavese. Le loro vite e le loro opere si incrociano in continui rimandi con la vita di Sandra e con la sua. Come fossero una storia sola.
«Lo sono. Capisco che leggere le parole di Sandra Mozarovski e di Ludwig Wittgenstein nella stessa frase possa sembrare stravagante, ma quando Sandra risponde, in un’intervista, che non può parlare della morte perché non è mai morta dice le parole del filosofo. La morte non fa parte della vita. Per me, per la mia esperienza personale, quegli autori sono stati il mio Pantheon. Ho dialogato con loro come se fossero vivi, più che coi vivi. Ci ho parlato ogni giorno. Con Pavese, che ha compiuto "il gesto". Con Camus, ho mandato a memoria il Mito di Sisifo. Con Wittgenstein, di cui qui ripercorro la sensazionale vita privata incrociandola alla mia, alla nostra».
Anche lei si rivela, in questo libro. Si spoglia, come Sandra.
«Già. È proprio così. Ho fatto uno streaptease personale. Non avrei mai pensato di scrivere di me ed ecco che invece, attraverso la sua storia, metto a nudo la mia. È stato un attimo, mentre guardavo uno dei suoi film: mi sono vista in una scena al mare, una risalita dalla spiaggia: io, i miei fratelli, mia madre, un giorno».
Come ha scoperto la storia di Sandra?
«Per caso. Ho letto su internet un articolo che diceva che era stata amante del Re e che era probabilmente incinta di lui, quando è morta. Ho cominciato a cercare. È stato difficile, non c’è più quasi niente su di lei. Tutto scomparso. No, non ho sentito i suoi fratelli, nessuno dei testimoni. Io scrivo quello che non so. Non è un reportage, è un romanzo. I parenti di Ana Mladic hanno cercato di impedire che il romanzo La figlia uscisse. Sono storie molto dolorose, queste che incrociano il potere la politica e le biografie personali, in questo caso di due ragazze molto giovani. Ana e Sandra».
Qui si spalanca una porta chiusa da decenni: la censura sulla condotta privata del Re di Spagna.
«Come era accaduto per Franco prima, anche di Juan Carlos, del re, non si parlava. C’era un patto con la stampa. Solo notizie edificanti. Ma in un certo senso è stato così anche dopo, con la Transizione. Non si può raccontare il lato oscuro, mai. C’è un mondo sommerso, ostinato, innominabile e ancora vivo».
Vivo oggi.
«Certo. La doppia verità vale ancora, nulla di quel che si vede è veramente persistente. Resiste l’indicibile. Vox, ma anche gli attuali vertici del Partito popolare, hanno radici fortissime nella dittatura. La Spagna non ha ancora sepolto, letteralmente, il cadavere di Franco. Il Pp non ha mai condannato la dittatura. Esiste una fondazione Francisco Franco, ufficiale e ricchissima. Gli eredi del dittatore sono stati nominati duchi. La storia che torna non si è mai mossa da qui».
E lei in quella storia ha vissuto.
«Fino ai miei 14 anni era vivo il dittatore. Noi ragazzi andavamo in pellegrinaggio non a Lourdes ma a Perpignan: a vedere i film proibiti. Eravamo sempre indietro su tutto. Volevamo anche noi essere europei. Le nostre famiglie erano cresciute nel franchismo. La mia, quella di Sandra — che aveva padre russo, madre spagnola. Famiglie piccolo borghesi, figlie ribelli.
Sandra aveva un gran carattere. Per fare il suo lavoro con quella famiglia, doveva essere stata una spina nel fianco per sua madre. Come io lo sono stata per la mia».
Sua madre è una figura centrale nel libro, in specie nell’ultima sorprendente parte.
«Mia madre mi detestava. Odiava me e la mia sorella maggiore, all’ombra della quale vivevo. Da piccola senti ma non comprendi. Lei amava solo i figli maschi, i nostri due fratelli. Solo da adulta ho capito che temeva per noi il suo stesso destino: odiava se stessa attraverso di noi, le femmine. È stata una vittima del franchismo: una donna, fino al ’75, non poteva avere un conto in banca, firmare una compravendita senza il consenso di un uomo. Del padre, del marito. Essere donna significa essere meno. Ancora oggi, ma allora era così per legge. Mia madre viveva una vita che non aveva scelto. La mia è stata la prima generazione ad avere la libertà di decidere di sé. Poi però, nella mia giovinezza disseminata da tentativi di uccidermi, ogni volta che riaprivo gli occhi, in ospedale, c’era lei. Era sempre lì accanto. Ha fatto cose che le amorevoli madri americane dei telefilm, quelle di cui avrei desiderato essere figlia, non avrebbero fatto. Allora le importava di me, ho pensato. Ero Poltergeist, ero una specie di Esorcista. Lei fumava, beveva e non mi vedeva. Ma in ospedale c’era sempre. Non le ho mai detto grazie per questo. Dei sentimenti non si parlava, a casa. È morta nel 2005. Le dico grazie con questo libro. Glielo dico così».