La Stampa, 6 marzo 2019
La Cina sotto l’assedio di Trump
La Cina deve essere «preparata a una dura battaglia». Parlando davanti ai circa tremila delegati riuniti nel cuore di Pechino per l’apertura dell’Assemblea Nazionale del Popolo, il premier cinese Li Keqiang non ha nascosto che nel 2019 la Repubblica Popolare dovrà affrontare «un ambiente difficile e più complicato, così come rischi e sfide». Una situazione che minaccia di avere un impatto negativo anche sulle economie americana ed europea.
La sessione annuale del Parlamento cinese segue mesi segnati dal rallentamento dell’economia, dalla guerra commerciale con gli Usa, dalla battaglia diplomatica sul caso Huawei. Ieri il numero due della nomenklatura di Pechino ha fissato «tra il 6 e il 6,5%» l’obiettivo di crescita per il 2019. Lo scorso anno l’economia cinese aveva segnato un +6,6%, il dato più basso dal 1990. Secondo gli analisti, la forbice piuttosto larga indicata quest’anno potrebbe dare a Pechino margini di manovra e porre minore enfasi sul Pil.
Li ha annunciato un robusto taglio delle tasse e misure per sostenere l’occupazione. L’Iva per il settore manifatturiero - più esposto ai dazi Usa - passa dal 16 al 13%, mentre cala dal 10 al 9% per le imprese di trasporti e costruzioni. Quest’anno la Cina creerà 11 milioni di posti di lavoro nelle città, mentre nelle aree rurali andrà avanti la lotta alla povertà per realizzare «una società moderatamente prospera» entro il 2020. Il capo del governo ha annunciato che le grandi banche statali aumenteranno di oltre il 30% i prestiti alle piccole-medie imprese, che sono alla base della crescita, ma soffrono difficoltà di accesso al credito. Li ha detto che non si farà ricorso a «forti politiche di stimolo», ma per finanziare la costruzione di infrastrutture le amministrazioni locali potranno emettere bond fino a 300 miliardi di dollari. Per rispondere alle accuse Usa di furto di proprietà intellettuale e di trasferimento forzato di tecnologia, la prossima settimana il Parlamento cinese approverà la legge sugli investimenti stranieri. «Creeremo - ha detto Li - un mercato giusto e imparziale dove le imprese cinesi e straniere saranno trattate in modo eguale». Il budget militare aumenterà del 7,5% rispetto allo scorso anno, anche se molti analisti ritengono che sia più alto. Preoccupazioni respinte dal portavoce dell’Assemblea Nazionale del Popolo, Zhang Yesui: «La Cina non pone una minaccia per gli altri paesi».
La percezione all’estero è diversa, e il timore di un impatto negativo sull’economia globale si basa su due punti: la riduzione delle importazioni, e gli eventuali interventi sulla moneta. La Repubblica popolare importa per circa 600 miliardi di dollari all’anno, e ha un peso ad esempio sulla domanda di petrolio. In Europa a soffrire dovrebbero essere soprattutto acciaio e cemento. Pechino assorbe meno del 3% dell’export italiano, ma circa il 6,5% di quello tedesco, e quindi la riduzione degli acquisti avrebbe comunque un effetto negativo su tutto il nostro continente.
Negli Usa l’impatto è forse più grave, anche a causa della disputa commerciale voluta dal presidente Trump. A gennaio la Apple ha ridotto le stime sui ricavi, proprio per il calo della domanda dei suoi prodotti in Cina. L’amministrazione l’ha aiutata, escludendo gli iPhone in arrivo dalla Repubblica popolare dalla lista dei beni colpiti dai dazi. Anche le tre grandi case automobilistiche hanno lanciato in misura diversa l’allarme per la frenata di Pechino, che colpisce poi gli esportatori di prodotti agricoli come la soia.
Trump ha rivendicato il merito di questa frenata, perché aiuta la sua battaglia commerciale, ma ha notato gli effetti negativi sull’economia. La speranza è che la disputa si chiuda ora con un accordo, da firmare intorno al 27 marzo.