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 2019  marzo 06 Mercoledì calendario

Kubrick, 5 capolavori da non perdere

«Non ho risposte semplici» ha sempre detto Kubrick. Figurarsi se è semplice scegliere i cinque film che non si possono perdere per avvicinarsi al cinema del regista morto il 7 marzo di vent’anni fa. Ma la sfida va accettata e così, eliminati alcuni titoli forse troppo famosi (e che personalmente mi hanno sempre lasciato un po’ freddo di fronte alla loro perfezione: 2001 – Odissea nello spazio, Barry Lyndon, Shining) ecco quello che per me è il meglio del meglio.
Il noir impressionante Rapina a mano armata (1956) A ventott’anni, al suo terzo lungometraggio, Kubrick fa centro con un noir carico di tensione e di vigore impressionante. La storia è quella di una rapina: un ex galeotto (Sterling Hayden, grandissimo) organizza un colpo all’ippodromo con la complicità di un cassiere frustrato e un poliziotto corrotto. Ma non ha fatto i conti col fatto che la moglie del cassiere ha un amante, che si presenta armi in pugno alla spartizione del bottino. Un noir freddo e implacabile, costruito su un doppio binario temporale, per mostrare il passato e raccontare le azioni in contemporanea. Indimenticabile.
Il dramma pacifistaOrizzonti di gloria (1957). Il più efficace e commovente film antimilitarista di tutti i tempi, impietoso nel mostrare l’ottusità e il sadismo di chi comanda. Ambientato sul fronte franco-tedesco durante la Prima guerra mondiale, denuncia la follia di un generale ambizioso e disumano che prima comanda un’operazione suicida e poi, visto l’insuccesso, esige di condannare a morte tre dei soldati che non si sono sacrificati per la sua follia. E che un colonnello (interpretato da Kirk Douglas, anche produttore del film) cercherà invano di difendere. La forza e la drammaticità della storia colpiscono direttamente al cuore, ma il film non si dimentica anche per la forza dello stile, dove ogni movimento di macchina e ogni angolazione di ripresa hanno un senso preciso, funzionale a denunciare la follia degli alti gradi militari.
La follia atomicaIl dottor Stranamore, ovvero come imparai a non preoccuparmi e ad amare la bomba (1964). Con un titolo che è già uno sberleffo, un lucidissimo atto d’accusa contro la follia atomica. Al centro della storia la paranoia del generale Ripper (Hayden), convinto di un complotto comunista per conquistare il mondo e deciso a contrastarlo scatenando un attacco nucleare. Che un triplo Peter Sellers – nei panni del colonnello Lionel Mandrake, del presidente americano Muffey e del suo consigliere Stranamore (quello con un braccio meccanico che non ha dimenticato le sue origini naziste) – cerca in tutti i modi di fermare. Mentre volano in frantumi i miti del potere, della scienza, dell’efficientismo e della proprietà privata.
Il pamphlet distopicoArancia meccanica (1971). Un pamphlet distopico sul nostro futuro prossimo, dove l’impossibilità di realizzare i nostri desideri finisce per scatenare la violenza e la frustrazione sessuale. A guidare le danze (dove la musica la fa da padrona: Rossini e Beethoven – anzi «Ludovico van» – su tutti) l’irrefrenabile Alex De Large (Malcom McDowell) che coltiva gli istinti più bestiali fino a quando la società non riuscirà a incanalarli a proprio vantaggio. Polemiche a non finire all’uscita, con l’accusa di aver esaltato e invitato alla violenza, ma in realtà il film è una delle più lucide riflessioni sul problema della libertà di scelta, senza moralismi o paure reverenziali.
Il militarismo estremoFull Metal Jacket (1987). La più straordinaria rappresentazione della violenza istituzionale, quella che i governi delegano ai militari e che nella prima parte del film viene incarnata dal sergente Hartman (un indimenticabile Lee Ermey) che deve trasformare diciassette reclute in marine e farne «non dei robot ma dei killer». Qualcuno non reggerà ma gli altri saranno pronti per scoprire le atrocità della guerra e imparare «a non aver paura». Diviso in due parti distinte – l’addestramento e la guerra – girato con uno stile freddo e oggettivo fatto di carrellate rettilinee e inquadrature controllatissime, il film assume scena dopo scena lo spessore di una tragedia assoluta, tra ansia di vita e pratica di morte.