la Repubblica, 6 marzo 2019
Da Kafka a Pinocchio l’errore letterario
Imprecisioni nella traduzione o nella stampa possono svelare lati inediti dei capolavori. Trasformando gli sbagli in “variazioni” L’ultimo è stato il neosegretario del Pd, Nicola Zingaretti, che in una delle sue prime dichiarazioni ha emulato il neosegretario della Cgil, Maurizio Landini. Il sindacalista aveva ripetuto “vadi” in tv; Zingaretti ha detto “che non si interrompino” (parlando della Tav): presi in giro con spensierata ferocia. Se avessero esortato, come fanno tutti, “andasse a quel paese” avrebbero sbagliato ancora ma nessuno avrebbe trovato da ridire, perché il meridionalismo non è più avvertito come errore neppure a Courmayeur. Non disturba nessuno nemmeno la concordanza tipicamente mancata di quando si dice: “La maggior parte delle persone sono...”. Gli errori sono considerati veniali o capitali o mortali a seconda del consenso delle genti o della severità dei censori. Ma a voler fare una teoria dell’errore – come invero sembra necessario, in circostanze storiche tanto inclini a sciatteria e fallacia – si dovrebbe comprendere che gli errori non sono diversi solo in funzione della loro gravità. Chi lo ha detto meglio di tutti è stato il grande jazzista Thelonious Monk, pianista, compositore, improvvisatore, che si arrabbiava molto con sé stesso quando in concerto faceva gli “errori sbagliati”. Improvvisare è un’arte, in gran parte fondata sul recupero dell’errore e suo reimpiego in una nuova logica. Lo scrittore e critico formalista Viktor Sklovskij parlava invece dell’«energia dell’errore». L’errore erode e frantuma le più granitiche certezze: la goccia scava la pietra, e poi vi scorre. La lingua italiana difesa dai puristi è per esempio in gran parte una collezione di errori di latino che con il tempo si sono stabilizzati nel “si può dire anche così”. Un errore è un errore; una quantità di errori sistematici produce una regola diversa, secondo cui errori, quelli, non lo sono più. Meravigliose possono essere le storie generate da errori testuali. Giorgio Manganelli trovò un’edizione di Pinocchio il cui sesto capitolo non esordiva con: “Era una nottataccia d’inverno”; ma con: “Era una nottataccia d’inferno”. Un errore, certo; però poi quel capitolo termina con Pinocchio che si brucia i piedi, a contrappasso della sua volontà di fuga. Così trasformare l’inverno in inferno non pare più tanto sbagliato. Un esempio più recente è la circostanza che ha convinto Adriano Sofri a intitolare il suo ultimo libro Una variazione di Kafka (Sellerio, 2018). In traduzioni dall’originale tedesco della Metamorfosi pubblicate in mezzo mondo, dalla sua camera il trasformato Gregor Samsa non percepisce il riflesso luminoso dei “lampioni stradali” (Strassenlampen) ma quello dei “tram” (Strassenbahn). Come può un tale errore essere stato compiuto da tanti traduttori in tempi e territori remoti fra loro? Le due parole originali non sono certo simili al punto da poter lasciar pensare a una traveggola collettiva. Sofri è un dichiarato ammiratore di Leonardo Sciascia ed è emulando un certo atteggiamento investigativo del letterato siciliano che si è messo in cerca di una risposta alla domanda sulla trasformazione dei lampioni in tram. Notando preliminarmente, peraltro, che proprio La trasformazione sarebbe stato un titolo letteralmente più acconcio che La metamorfosi. Oggi la ricerca non costringe sempre a inoltrarsi fra la polvere degli archivi: esistono dei “motori di ricerca” e Google è stato l’alleato più prezioso per Sofri – con l’ovvio problema che Google non cerca bensì trova. Trova, cioè, quello che si sa già, mentre le ricerche si fanno per trovare qualcosa che non si sa già. Bisogna allora seguire l’indicazione del grande critico letterario Mario Lavagetto: “Lavorare con piccoli indizi”. È il compito del filologo come quello dello psicoanalista, due atteggiamenti che possono diventare opposti: Sebastiano Timpanaro intitolò uno studio al Lapsus freudiano per dimostrare che l’origine di tutti gli esempi collezionati da Freud non era inconscia ma testuale. Google ha fornito a Sofri gli indizi che gli sono serviti per ricostruire la vicenda editoriale della Metamorfosi e congetturare che all’origine di questa deviazione ci sia stato un ripensamento semiclandestino dello stesso Kafka. Partito dall’errore, Sofri è pervenuto così alla variazione. Fra tutti gli ambigui servigi che ci rende la variazione, il più ovvio è che consente sia di negare la pura ripetizione sia di impegnarsi in innovazioni faticose. Il servigio estremo, perché il più inconfessabile e il più prezioso, è invece quello di dare senso agli errori, trovarne un’intenzione indimostrabile ma convincente, preferire alla luce fissa dei lampioni quella mobile del tram. Occorrerebbe però fare gli “errori giusti” di Monk, mentre la sensazione è che persino nei suoi errori tipici la nostra epoca abbia orizzonti limitati. Dai refusi che punteggiano i nostri testi come esantemi sino agli atti inopportuni, non sempre la variazione può intervenire per recuperare un’intenzionalità almeno marginale. Restano allo stadio di strafalcioni e cantonate, errori tonti e infecondi, che testimoniano solo della nostra condizione costantemente “insaputa”. Siamo improvvisati anche come improvvisatori: se almeno imparassimo l’arte della variazione, l’improvvisazione sapiente che sa tracciare nuove strade a partire da errori banali ma “giusti”, quello sarebbe già un progresso.