la Repubblica, 6 marzo 2019
Le aziende se ne vanno da Piazza Affari
Piazza Affari non è più un listino per grandi. La Borsa di Milano – proseguendo un trend che dura da dieci anni – si prepara infatti a dare l’addio a due pesi massimi del listino. Luxottica se ne è andata ieri per finire tra le braccia della francese Essilor. E da domani i suoi occhiali saranno quotati solo a Parigi. Oltralpe è pronta a emigrare anche Parmalat dopo l’Opa del colosso del latte transalpino Lactalis. Il trasloco dell’ex-impero dei Tanzi sotto la tour Eiffel era in teoria fissato ieri. Ma il Tar del Lazio ha congelato temporaneamente la fuga dal mercato meneghino dell’ex-impero dei Tanzi su richiesta della banca Usa Citigroup, che ha in sospeso con la società una richiesta danni da 300 milioni che verrà discussa in tribunale il 26 marzo. La fuga dei due big ha i contorni di un déjà- vu per il listino italiano che negli ultimi due lustri ha cambiato pelle ridisegnando il proprio identikit. Aprendo le porte a molte piccole e medie imprese (grazie all’"invenzione” di piattaforme di scambi ad hoc con regole meno rigide pensate per loro) ma perdendo per strada diversi big. Complice una globalizzazione in cui il Belpaese gioca un ruolo un po’ da comprimario. Molte banche si sono fuse, qualche gruppo come Bulgari ed Edison è finito in mani straniere cancellando dalla City meneghina le proprie azioni ordinarie, altri – come Benetton, Lottomatica e Beni Stabili – sono stati trasferiti all’estero dai soci italiani. Risultato: il listino principale ha perso per strada in dieci anni quasi 50 aziende (-12%) malgrado l’arrivo in Borsa di qualche brand della moda come Ferragamo, Moncler e Brunello Cucinelli. E a tappare il buco ci hanno pensato le micro-quotazioni di diverse pmi – il vero polmone industriale nazionale – che hanno tenuto in sostanza invariato attorno a quota 350 il numero complessivo di titoli quotati sui vari segmenti di mercato. Piazza Affari, per dimensioni, resta comunque ancora un listino di provincia. Il valore di tutte le società quotate rappresenta “solo” il 36% del Pil nazionale. Meglio del 30,4% del 2009 quando le macerie del crac della Lehman avevano affondato gli indici. Ma lontanissimo dall’84% di venti anni fa – alla vigilia della bolla della new economy – e dai valori di altri Paesi: Wall Street e dintorni valgono il 136% dell’economia Usa, Parigi è attorno al 100%, Francoforte sul 60%, Madrid al 75%. Non solo. In cima alla hit-parade (per dimensioni) di Milano svettano Eni ed Enel, due società che hanno lo Stato come maggior azionista. E dall’Olimpo meneghino sono spariti i titoli tlc che vent’anni fa – con Telecom, Tim e Seat – monopolizzavano il podio. L’ex gigante delle telecomunicazioni si è mosso con il passo del gambero e oggi a Milano vale 8 miliardi di euro, noccioline rispetto ai 73 del 1999. Nella top ten è tornata invece Fca grazie al rilancio del Lingotto degli ultimi anni, superata in un derby a quattroruote tutto tricolore dalla Ferrari che da sola vale oltre 22 miliardi ed è la prima realtà industriale privata di Piazza Affari. La performance del listino milanese dal 2009 a ieri, a voler vedere il bicchiere mezzo pieno, non è male: l’indice Ftse-Mib ha messo assieme infatti un progresso del 44%. Il confronto con il resto del mondo però è impietoso. L’indice Dow Jones a Wall Street è cresciuto nello stesso periodo del 215%, il Nasdaq del 301%, Francoforte del 200% e Parigi del 79%. L’importante però in Borsa – dicono tutti i guru – è scegliere bene: chi ha comprato il 5 marzo 2009 mille euro di titoli Recordati se ne trova in tasca oggi, dieci anni dopo, ben 8.317. Puntando sui condizionatori De Longhi, lo stesso tesoretto sarebbe lievitato a 12.284, sui freni di Brembo addirittura a 23.720. Meno bene è andata a chi quei mille euro li ha puntati tutti sulle azioni Mps. Oggi il tesoretto – complice il crac di Siena – si sarebbe ridimensionato a 52 centesimi.