Corriere della Sera, 5 marzo 2019
Il trapiantato più longevo al mondo
Paolo ha sgamato il destino, come dice lui. «Ho messo in crisi il meccanismo che la natura e la genetica avevano impostato su di me. E quando prendi coscienza di tutto questo, quando realizzi che sei statisticamente morto, pensi: quanto devo durare ancora?». Lui «dura» dal 29 gennaio 1989, è l’uomo trapiantato di polmone più longevo al mondo. Meglio di lui (6 mesi in più) solo Vera, un’irlandese operata dal suo stesso professore e nel suo stesso ospedale, l’Harefield di Londra.
A sentirla raccontare sembra uno di quei grandi romanzi del Novecento, la vita di quest’uomo che parla lento e a bassa voce («non è vero che ho un carattere tranquillo, non mi arrabbio sennò respiro male»). Paolo Conforti – 65 anni, casa e lavoro da architetto a Parma – pesca dalle pagine della sua esistenza sensazioni legate al trapianto, colpi di scena, incontri e coincidenze che hanno fatto la differenza e ricordi dell’altra vita, quando annusava e respirava il tempo con i suoi polmoni, faceva gare di trial, passava le estati a far regate sulle barche dei grandi industriali italiani.
Tornare all’incipit è un attimo «Avevo 35 anni – racconta – quando una mattina di colpo mi è mancato il fiato». Non ci volle molto a capire che i suoi polmoni stavano morendo, rovinati dalla chemioterapia e radioterapia a cui si era sottoposto anni prima per guarire da un linfoma. «Mi dissero: la sola possibilità è il trapianto. Ma era fantascienza. Il polmone è l’organo più difficile da trapiantare e in Italia nessuno l’aveva mai fatto. La casistica mondiale parlava di persone morte subito, altri dopo una settimana... Ero destinato a morire». Ma per caso un suo amico medico conosceva un professore inglese di origini egiziane, Magdi Yacoub, che aveva già fatto trapianti di polmone nella sua clinica londinese. «Rintracciarlo era impossibile», ricorda Paolo. «Però scoprimmo che sarebbe venuto a Padova per una lectio magistralis. Partimmo a velocità folle, in tre più la bombola d’ossigeno. Ci fermò la polizia e l’amico che guidava, Maurizio, spiegò con tale enfasi l’emergenza che si offrirono di scortarci fino all’aeroporto. Quando il guru dei trapianti vide il mio amico Umberto gli andò incontro. Lui gli spiegò la situazione e finì che quell’uomo salì in macchina con noi. Ricordo che guardava le mie lastre contro il finestrino. Eravamo verso Natale. Disse: vieni da me dopo le feste».
Paolo arrivò a Londra nel bel mezzo di una polemica: «Gli inglesi erano incaz... perché dovevano condividere la lista d’attesa con pazienti di tutta Europa. Il chirurgo mi disse: devi aspettare, forse mesi. Oppure, se c’è un donatore, fatti mandare il polmone dall’Italia, tanto voi li buttate via...». In Italia all’epoca si trapiantavano cuori, fegato, reni, mai polmoni. Ancora una volta si mobilitarono gli amici: «Si sono dati da fare con burocrazia e istituzioni e nel giro di 20 giorni hanno saputo di un donatore perfetto, un ragazzo di 16 anni. Io ero già in sala operatoria quando da Londra partì un jet con l’équipe per espianti del professor Francesco Musumeci». Ma mentre il jet era in volo chiamarono dall’Italia: «Da qui non portate via niente, non c’è una legge che lo permette».
Una storia da romanzo, dicevamo. Ecco un altro capitolo: «Un amico conosceva l’allora ministro della sanità Carlo Donat Cattin. Lo chiamò. Gli spiegò. Lui andò immediatamente in ufficio e firmò un decreto che autorizzava tutto, lo inviò in ospedale e il jet riprese la rotta verso l’Italia. Espiantarono i polmoni di quel ragazzo e ne montarono uno a me, l’altro a un gallese che morì tre anni dopo».
Da allora Paolo festeggia due compleanni: quello vero (2 settembre) e quello del trapianto (29 gennaio). «Subito dopo l’operazione – ricorda – una sera venne Yacoub e mi disse: andiamo a fare un giro. Mi spinse verso le scale: “sali”. E io: come sali? Andai. Un’emozione indescrivibile... Sei morto e all’improvviso corri perché ti cambiano il motore. Il disastro peggiore è l’illusione. Ti rimandano a casa e poi hai il rigetto, torni all’ossigeno, sai che le possibilità di salvezza diminuiscono. Ne ho visti tanti... sono tutti morti. Li trovi a una visita e a quella dopo non li vedi più. Noi andiamo incontro a tumori, rigetto, complicazioni legate ad anni di farmaci. È uno stato di perenne allerta che ti toglie progettualità, sviluppi una specie di anoressia emozionale, non c’è niente che ti entusiasmi davvero. I primi anni non pagavo nemmeno il bollo dell’auto! Pensavo: tanto muoio. Poi sono arrivati tutti con gli interessi».
Sono passati 30 anni e molti bolli. Paolo e l’irlandese Vera camminano in un territorio sconosciuto per la scienza, molto più in là dei limiti della sopravvivenza media. Lui ogni tanto ride di una lapide vista nel cimitero acattolico di Roma. C’è scritto: «Novità?». Nel suo caso ce n’è una sorprendente: è ancora vivo.