la Repubblica, 5 marzo 2019
Quanto t’invidio Jonathan Franzen, amore mio
Questa è la storia di due scrittori. Vale a dire una storia di invidia. Ho incontrato quell’uomo in una residenza per artisti, e mi e piaciuto fin dal primo racconto che gli ho sentito fare: di quella volta che gli avevano dato buca a un appuntamento al buio e lui era andato dritto a comprare dei vestiti nuovi. Al tempo del nostro incontro era alle prese col suo terzo libro, ma non sembrava granché interessato a parlare di lavoro. Leggeva il giornale e guardava lo sport in tv. Era di una bellezza timida, arrogante, portava in modo discreto ma spavaldo jeans neri e camicie bianche. E, come avrei presto scoperto, era in crisi. Probabilmente non a tutte le donne piace il genere, ma a me sí.
(…) Lui sarà anche stato in crisi, ma almeno sapeva qual era il suo lavoro. Fu quella la prima cosa che gli invidiai. (…) Nei due anni successivi, in cui ci incontrammo dall’uno o dall’altro e trascorremmo insieme prima settimane e poi mesi di fila, l’uomo e io stabilimmo una routine fatta di piacevoli momenti condivisi e un buon numero di liti furiose.
Durante il giorno me lo immaginavo concentratissimo sul suo romanzo, e anche io cercavo di lavorare. La mia raccolta di racconti era stata finalmente accettata e pubblicata da una casa editrice universitaria l’autunno successivo alla morte di mio padre, e per quanto mi ritenessi preparata, l’educato silenzio con cui venne accolta dovette deludermi più del previsto perché cominciai a mettere in dubbio la qualità del mio lavoro come non mai. A volte impiegavo la mattina intera per approdare alla scrivania e una volta lì, spesso accendevo il computer e mi distraevo, sfogliavo un libro, rispondevo alle mail o perdevo tempo a rivedere qualcosa. Quando alla fine riuscivo a concentrarmi, pensavo che scrivere per il teatro fosse uno sbaglio e che in realtà avrei dovuto tornare alla narrativa. (…) Aspettavo con ansia che arrivasse la sera per vedere l’uomo, che ancora mi sembrava nuovo e misterioso, varcare la porta. Ma avevo anche paura di quel momento perché avrei dovuto mentire sulla mia giornata di lavoro o peggio ancora dire la verità… e anche perché avrei dovuto ascoltare quello che aveva fatto lui. Perché l’uomo, che quando l’avevo incontrato era così piacevolmente in crisi, ora aveva trovato la quadra, il punto di svolta. Nei mesi che mi ci erano voluti per scrivere un raccontino di quindici pagine irrisolte sulla fine di un matrimonio, una breve commedia su una donna che va a letto col marito della sua migliore amica, e una sceneggiatura di settanta pagine che portava i segni disperati ed evidenti della «esercitazione didattica», lui aveva sfornato svariate centinaia di cartelle del suo nuovo romanzo.
Che purtroppo era buono. Mi bastò leggerlo per saperlo, ma ne ebbi anche conferme indipendenti – perché man mano che ne finiva una parte e la stampava arrivavano le telefonate di congratulazioni. (…) Quando veniva fuori il tema del suo successo, spesso qualche amico diceva: «Il bello è che lui se lo merita davvero». Ma scherziamo?
Era proprio quello che rendeva la cosa così difficile. Una volta tanto gli dei non avevano commesso lo stupido errore di sorridere all’ennesimo ciarlatano privo di genio ma ben ammanicato. No, qui si trattava dell’eccellente opera di qualcuno che aveva dedicato la vita a quel lavoro, e che adesso veniva premiato per quello. (…) Invidiavo il suo talento – il fatto che fosse capace di uscire la mattina e tornare a casa la sera con cinque pagine brillanti, o di escogitare una metafora, fissare un personaggio con una frase, e affrontare con disinvoltura questioni di geopolitica o di chimica cerebrale.
Invidiavo il fatto che in aeroporto o al ristorante, sconosciuti – lettori! – gli andavano incontro entusiasti. Invidiavo quello che talento e successo gli avevano trasmesso, il senso di stare facendo la cosa giusta. Io volevo quello che vogliono sempre le donne: sentirmi legittimata. Ma in fondo lui ce l’aveva anche prima di scrivere quel libro, era stata la prima cosa che gli avevo invidiato.Probabilmente era stato proprio quello a permettergli di scriverlo.
Mi hanno insegnato ad ammirare la vita come servizio, e tuttora la ammiro. Quando vedo una persona dedita ad aiutarne un’altra, penso che stia facendo il lavoro di tutti, il compito dell’essere umano. Ma nessuna buona azione altrui mi dà la stessa pugnalata di un buon libro. La ammiro, ma non la invidio. Qualunque altro effetto abbia prodotto, di certo l’invida nei confronti di quell’uomo mi ha aiutato a vedere la differenza tra ciò che mi hanno insegnato a desiderare, ciò che vorrei desiderare, e ciò che desidero. Mi lusingo dicendomi che sto migliorando, che mi sto abituando. Io e l’uomo siamo finalmente felici e per lo più rilassati, e il suo libro e la sua fama sono un dato della nostra vita insieme. Ma chi voglio prendere in giro? A casa certi giorni non voglio ascoltare la segreteria telefonica; quando entro in libreria e vedo quella pila sul tavolo delle novità qualche volta il cuore mi batte cosí forte che sembra mi voglia uscire dal petto. Leggo le interviste e le recensioni, ma non tutte; voglio che siano positive, ma poi le voglio dimenticare. Quanto al libro, che ho letto due volte, adesso non lo voglio più vedere. Ecco quanto sono migliorata. Eppure sono migliorata, perché dentro di me qualcosa è venuto a galla: un altro racconto. In questo nuovo racconto ho dato via libera a ogni impulso meschino e desiderio egoistico, a tutto quello sgradevole groviglio di insicurezza. Non c’è un io migliore da proteggere; il moralismo ha capitolato. In questo racconto io non faccio il lavoro per cui sono nata, forse nemmeno quello che faccio meglio, ma quello che ho scelto – incompleto, spesso infelice, incostante e incerto. (…) A quanto pare ho affrontato circostanze che superano la mia capacità di incassare sorridendo.
Mi sono scontrata con i limiti della mia bontà: la persona che amo ha quello che voglio io e probabilmente lo avrà sempre. Che ci posso fare? Tanto vale che continui a lavorare.
©2003 Kathryn Chetkovich. 2019 Giulio Einaudi editore.
(Traduzione di Maria Baiocchi)