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 2019  marzo 05 Martedì calendario

Assorbiamo duemila frammenti di plastica l’anno

Da un lato i difensori dell’ambiente. Attendono l’arrivo del 2021, quando posate, cannucce e piatti di plastica saranno vietati in Europa. Dall’altro chi ancora non crede nello smistamento dei rifiuti, sperando che, prima o poi, i Comuni si decidano a ripristinare i cassoni grigi, quelli per l’indifferenziata. Poi c’è chi si pone le domande. Non solo su dove buttare il cartone del latte, fatto di materiale misto. La plastica fa davvero male? E se sì, quanto? Se ne è parlato al Festival del Giornalismo Alimentare, organizzato a Torino. A dibattere del possibile ruolo dei residui di microplastica Giorgio Gilli, professore di Igiene dell’Università di Torino e presidente dell’Istituto Zooprofilattico di Piemonte, Valle d’Aosta e Liguria, insieme con Sherri Mason, ricercatrice e docente di chimica della Penn State University di New York, e Lorenza Meucci, dirigente del Centro Ricerche Smat.
Pc: apro pubmed, una delle principali banche dati scientifiche a livello mondiale. La plastica o, meglio, i suoi residui, molto variabili nelle dimensioni, in natura ci sono. Eccome. Basta immettere termini chiave quali «plastic» o «microplastic fibers» e «contamination» su pubmed e cliccare «search». Vengono fuori migliaia di items. Del resto lo evidenziano anche le indagini della ricercatrice statunitense (che, non a caso, di cognome fa Mason). Lei, i residui di plastica li ha trovati nel sale da cucina, nell’acqua in bottiglia, in quella di rubinetto. Fra i campioni che ha analizzato, prodotti di marche diverse e differente provenienza: sotto esame anche l’Italia. A riportare i peggiori risultati, in modo assoluto, il sale da cucina, quasi ovunque contaminato. Anche i campioni nostrani: tra quattro e 30 le unità di microplastica presenti per chilo. Il che vuol dire che, considerando l’assunzione media giornaliera di 10 grammi di sale da cucina, ognuno di noi potrebbe arrivare ad ingerire circa 2 mila frammenti di plastica all’anno.
I residui, la Mason, li ha trovati nel sale, ma anche, abbondanti, nell’acqua. Acque confezionate, diffuse a livello globale: campioni con, in media per ogni bottiglia, 325 particelle di plastica per litro. E non si salva, purtroppo, neppure l’acqua del rubinetto. «Abbiamo raccolto campioni d’acqua nelle case di tutto il mondo, da New York a New Delhi - spiega Mason -. L’83% dei campioni esaminati conteneva fibre di microplastica». Tra quelli positivi anche i campioni italiani. Ma, se la plastica è presente nell’acqua di rubinetto, probabilmente è anche presente nei cibi, che, con l’acqua, vengono preparati.
Riapro il pc: di nuovo pubmed. Le microplastiche immesse nel mare o trasportate dal vento ce le ritroviamo dunque in tavola, dentro l’acqua in bottiglia, giù dai rubinetti di casa, nei cibi che mangiamo. Ma, al di là dei numeri, il punto è: che effetti possono avere tali residui sulla nostra salute?
«Attualmente siamo in una fase preliminare - risponde Gilli -. Nessuno degli studi sinora effettuati si è, infatti, soffermato sulle possibili implicazioni date dall’ingestione di tali particelle». In sostanza, pochissime le informazioni a riguardo, se non quelle dettate dal buon senso. Più i frammenti sono piccoli e più facilmente possono superare le barriere all’interno del nostro corpo e, quindi, causare potenzialmente qualche effetto. Empatia, molta, per il capodoglio spiaggiato e imbrigliato in una rete di bottiglie. Ma la questione su cui occorre soffermarsi oggi, in ottica di salute umana, sta tra il «micro» ed il «nano». Quali potrebbero essere gli effetti sulla nostra salute?
La plastica, da letteratura, è considerata materiale inerte. Tuttavia, come qualsiasi antigene con cui il nostro organismo può entrare in contatto, anche i residui di plastica potrebbero causare risposte di tipo immunitario. Non è da sottovalutare, inoltre, la proprietà che le plastiche hanno di veicolare sostanze di vario tipo. Potrebbero dunque avere più facile accesso all’interno del nostro corpo materiali, quali, ad esempio, contaminanti ambientali, additivi chimici, monomeri costitutivi delle plastiche stesse. Oppure microrganismi patogeni: trasportati dai residui di plastica, penetrerebbero meglio le nostre barriere. Senza dimenticare che tali residui, nel nostro corpo, potrebbero innescare meccanismi di tipo infiammatorio, alla base di molte patologie.
«Prima di scatenare allarmismo però - precisa Gilli - bisogna approfondire la cinetica dei residui più piccoli, potenzialmente i più dannosi per l’uomo. Il modo, cioè, in cui si possono diffondere all’interno dell’organismo». E, da lì, successivamente, effettuare, attraverso test specifici, studi di correlazione con l’eventuale insorgenza di patologie. Per ora possiamo solo presupporre che non sia il più sano dei trattamenti: questione da tenere sotto controllo, in attesa dei risultati, a determinare le future linee operative. «Tenendo conto, per evitare inutili preoccupazioni - conclude Gilli - del concetto di rischio accettabile, dato dalla realtà in cui viviamo».
Costerebbe troppo bandire tutta la plastica, è ovvio. Praticamente impossibile. E con il «rischio accettabile» dobbiamo fare i conti. È quindi auspicabile studiare a priori i contaminanti ambientali. Prima di ritrovarcisi immersi.