il Giornale, 4 marzo 2019
Se il suicidio (d’artista) rende la vita perfetta
Ci sono molti motivi per uccidersi, e molti modi e naturalmente molte età: il suicidio attrae i giovani come i vecchi, ma non disdegna gli uomini o le donne nell’età della maturità, trent’anni, quaranta, cinquanta... Nel suo Suicidi d’autore (Stampa alternativa, pagg. 190, euro 14), riedizione ampliata di un libro uscito una quindicina d’anni fa, Antonio Castronuovo ne allinea venticinque «esemplari», nel senso di compiuti in quanto dietro di essi c’è un artista, un poeta, un grande pessimista... Nella loro storia vissuta all’insegna dell’arte, il suicidio è a volte suggello della loro esistenza, scrive l’autore nel dar conto della tragicità di Sylvia Plath, Antonia Pozzi, Sarah Kane, Irme Seidler, lì dove l’essere da subito ai ferri corti con la vita rende la morte di propria mano una liberazione. Oppure può essere un «culminante pensiero di ribellione», come nel volo dalla Torre della Garisenda di Attilio Formiggini (1878-1938), l’editore che aveva fatto del ridere il suo marchio di fabbrica e che si sfracellò al suolo per protesta contro le leggi razziali e contro un regime che infamandolo in realtà infamava se stesso.
Nella categoria del suicidio Castronuovo inserisce anche dei casi di autodistruzione programmata: Alfred Jarry (1873-1907) che annega la sua esistenza nell’assenzio, Raymond Roussel (1877-1933) che si consuma nella droga. Più pertinenti sono però i gesti di deliberata volontà di sottrarsi a ciò che la storia, ovvero il destino, potrebbe avere in serbo per chi li mette in atto. Nicolas de Condorcet (1743-1794), uno dei teorici e filosofi della Rivoluzione francese, si avvelena nel carcere dove il Terrore giacobino lo ha rinchiuso in attesa che la ghigliottina trovi la sua testa; Walter Benjamin (1892-1940) si avvelena nell’alberghetto spagnolo di Port Bou per evitare il campo di concentramento che probabilmente lo aspetta in Francia; Drieu La Rochelle (1893-1945) si avvelena fra le quattro mura della casa che lo ospita per sottrarsi a «un processo imbecille» e al giudizio dei vincitori...
Secondo Castronuovo, «il suicidio è generalmente considerato l’esito di una sofferenza, di una incapacità, di una delusione: un atto debole e negativo». Non ha torto, ma vale la pena di vedere le cose anche da un altro punto di vista, sulla scorta delle riflessioni di Henry de Montherlant (1896-1972) anche lui facente parte della «pattuglia dei venticinque» selezionata in questo volumetto. Scriveva dunque Montherlant che «la prima ragione per amare il suicidio, è che è calunniato. Il suicidio condivide, con un certo numero di azioni proprie alle minoranze, il terribile onore d’essere considerato un delitto, pur senza esserlo». E ancora: «Che il suicida sia o non sia uno sconfitto, ha poca importanza, se col suo suicidio ha testimoniato due cose: il suo coraggio e il suo dominio». Un’eco di queste considerazioni lo si avverte nell’apocalittico Ceronetti quando nel Silenzio del corpo osserva che «motivi ideali per uscire da questa morta vita sono un sollievo e un riparo, una specie di capitale in una banca sicura: si sa che basta uno scarabocchio per riaverli tutti in un colpo. Li vado, per ora, accumulando e ogni tanto passo allo sportello, che non è blindato». Un’eco di queste considerazioni lo si avverte nel laico e disincantato Prezzolini dei Diari: «Il suicidio è l’atto più puro del pensiero. È un assoluto che non lascia nulla da risolvere. È la più sicura affermazione di libertà».
Montherlant si uccise che aveva superato i settant’anni. Stava diventando cieco, aveva un tumore, sapeva che da tempo ormai il corpo non rispondeva più ai comandi, temeva il buio, l’immobilità, il dipendere dagli altri. Aveva avuto una vita vissuta nel godimento dell’istante, mai obbligarsi a fare cose sgradite, non nutrire ambizioni: «Una dopo l’altra ho visto sparire le mie ragioni di agitarmi, sommerse, ciascuna a suo turno, dalla marea montante dell’indifferenza. La religione, poi il fascino delle anime, poi la fraternità (che ho avvertito solo durante la guerra), poi la curiosità e il gusto che avevo di me stesso. È rimasta soltanto la volontà di costruire un’opera letteraria».
Era una maschera, Montherlant, costruita ad arte per meglio imprigionare i volti che non dovevano apparire. La maschera del seduttore impenitente, dietro cui c’era un pedofilo inguaribile; la maschera dell’eroe di guerra, dietro cui c’era stata la spasmodica ricerca della ferita da esibire; la maschera del coraggio, dietro cui si nascondeva l’uso accorto del rischio e delle vie di fuga... Eppure era anche la maschera che più gli assomigliava, il modello ideale a cui attenersi, un’idea di grandezza a cui aspirare. Come osserverà Cioran: «Suicidio di Montherlant. Si è riscattato ai miei occhi. Fine di ogni atteggiamento, di ogni posa. O piuttosto: atteggiamento supremo, posa suprema». E aveva ragione Paul Morand: «Non era fatto per vivere un’epoca vile. Era fatto per un’epoca di tornei e non di rapine. Muore all’inizio dell’autunno, come un eroe solare».
Si uccise, Montherlant, ingerendo del cianuro e poi sparandosi un colpo di rivoltella nel suo appartamento parigino il 21 settembre 1972, ultimo giorno d’estate, scelta non casuale. Via via che l’età avanzava, aveva lavorato nel segno della perfezione: voleva che di sé sopravvivesse il solo campo dello stile che aveva arato e dissodato. Quando un quarantenne Bruce Chatwin andò a intervistare l’ottantenne Ernst Jünger questi, annoiato dalla sua invadenza, gli mostrò una lettera di Montherlant che citava una frase di Tolstoj: «Fare visita a un grande scrittore non ha senso, perché egli si incarna nella sua opera». Sempre un po’ petulante, Chatwin allora spostò il suo interesse su quest’ultimo e così Jünger per tutta riposta tirò fuori una xerocopia piena di macchie sulla quale era scritto a penna: «Il suicidio fa parte del capitale dell’umanità». La citazione era di Jünger, la scrittura di Montherlant. Le macchie erano fotocopie del sangue di quest’ultimo. Serviva altro?