Corriere della Sera, 4 marzo 2019
Le tangenti del fascismo
Nel 1975, durante uno spettacolo a Genova, Walter Chiari (che in gioventù aveva aderito alla Repubblica sociale italiana) lanciò una provocazione: «Quando fu appeso per i piedi a piazzale Loreto, dalle tasche di Mussolini non cadde nemmeno una monetina… Se i nuovi reggitori d’Italia subissero la stessa sorte, chissà cosa uscirebbe dalle loro tasche!». La battuta provocò un grande applauso, a dispetto del fatto che la città fosse medaglia d’oro della Resistenza e di lì nell’estate del 1960, per protesta contro la convocazione di un congresso del Msi, fosse partita la rivolta che aveva provocato la caduta del governo Tambroni. Da allora la battuta di Walter Chiari divenne un luogo comune della destra e, più in generale, dei settori qualunquisti e conservatori dell’opinione pubblica italiana. Anche quelli non nostalgici. Mauro Canali e Clemente Volpini sono andati a verificare se le cose andarono veramente nei modi di cui alle parole di Walter Chiari. Se cioè corrisponde alla realtà che i fascisti, ancorché politicamente nefasti, siano stati sostanzialmente onesti. E sono giunti alle conclusioni – esposte in un libro, Mussolini e i ladri di regime. Gli arricchimenti illeciti del fascismo, in procinto di essere pubblicato da Mondadori – che le cose non stanno così.
Mussolini, ricordano Canali e Volpini, aveva fondato nel 1919 il movimento fascista (che diventerà Partito nazionale fascista nel 1921) «per combattere i profittatori di guerra, i “pescecani”, i politicanti, gli egoisti, i corrotti e poi i parassiti dello Stato». Il programma dei Fasci di combattimento proponeva il sequestro dei profitti di guerra o una vera espropriazione parziale di tutte le ricchezze attraverso un’imposta sul capitale. Poi, dopo che Mussolini giunse al potere (1922), non se n’era più fatto niente. Ma nella retorica del regime l’attacco alla plutocrazia, al potere della ricchezza resisterà per tutto il Ventennio. Fisiologico perciò che, dopo la caduta del fascismo (25 luglio 1943), il governo di Pietro Badoglio avviasse immediatamente un’indagine per verificare se sotto il regime fossero state commesse delle ruberie. Il 5 agosto del 1943, la notizia dell’avvio dell’inchiesta sugli illeciti arricchimenti dei maggiorenti mussoliniani – con un’apposita commissione presieduta dal presidente della Corte suprema di Cassazione Ettore Casati – fu data da tutti i giornali e nel giro di pochi giorni i gerarchi finirono sulle prime pagine – scrivono Canali e Volpini – «gettati in pasto a un’opinione pubblica che fino a poco tempo prima li aveva temuti odiati, riveriti, spesso invidiati». Con quei racconti, aggiungono gli autori, la fine tragica del Ventennio assunse «tratti da commedia, da spettacolo del malaffare ridicolo e ricco di colpi di scena». Con «fughe rocambolesche, rotoli di banconote nascosti nell’acqua degli sciacquoni, arresti eccellenti, favolosi patrimoni in ville, tenute, palazzi e castelli». Per arrivare infine «ai sequestri dei beni mobili, con verbali e inventari redatti con una pignoleria da non credersi»: dalle pellicce agli arazzi, dai cavalli purosangue ai posacenere, «passando per i corredi, tovaglie, lenzuola, asciugamani, fino al numero di posate in argento e all’ultima pantofola, calza e mutanda del gerarca inquisito». Il tutto «immerso in un fiume di denaro e in un cerchio fatto di amici, amici degli amici, amanti, mogli, figli, parenti lontani, ricattatori, ruffiani e segretarie compiacenti». Per un ammontare di 118 miliardi di lire dell’epoca di cui l’Erario riuscirà a recuperare solo 19.
In seguito di quel genere di storie che avevano tenuto banco sui giornali nell’estate del 1943 si parlò sempre meno; finché, poco più di trent’anni dopo, fu possibile fare quella battuta a Genova senza che nessuno (o quasi) trovasse alcunché da ridire. Adesso i due storici, sulla base di una nuova, ampia documentazione inedita, sono giunti a un punto definitivo: gran parte dei fascisti di primo piano, a partire dallo stesso Mussolini e dai familiari della sua amante Claretta Petacci, si arricchirono in modo davvero considerevole. Conclusione a cui giunge anche un altro pregevole volume testé edito da Laterza, Il fascismo dalle mani sporche. Dittatura, corruzione, affarismo, che raccoglie saggi di autori diversi, raccolti e curati da Paolo Giovannini e Marco Palla.
Il più grande arricchito del regime risulta essere Costanzo Ciano, padre di Galeazzo, che sarà ministro degli Esteri nonché marito di Edda, la figlia di Mussolini. Alla morte di Costanzo Ciano, raccontano Canali e Volpini, Vittorio Emanuele III aveva confidato a Mussolini, «facendogli strabuzzare gli occhi e lasciandolo senza fiato», che l’uomo aveva accumulato un patrimonio di circa 900 milioni. Ma c’è stato anche di peggio.
I più sorprendenti risultano essere il prefetto Antonio Le Pera e il sottosegretario (futuro ministro dell’Interno nella Rsi) Guido Buffarini Guidi, che lucrano sulle politiche razziali del regime. «La banda che era mossa dal prefetto Lepera in realtà faceva capo a Buffarini che mangiava a quattro ganasce», annotava Galeazzo Ciano sul suo diario. Voci si addensano anche su uno dei principali esponenti dell’antisemitismo italiano, Telesio Interlandi, direttore de «Il Tevere». Alla fine degli anni Trenta, Francesco Peruzzi, questore e alto funzionario dell’Ovra, sostiene che Interlandi avrebbe ricattato per «varie decine di migliaia di lire» l’ebreo Gino Coen, un «facoltoso industriale romano». Il questore riferisce al capo della polizia Arturo Bocchini, il quale a sua volta informa Mussolini. Il Duce, ricostruiscono Canali e Volpini, «vuole certezze e affida al ministro della cultura popolare Dino Alfieri il compito di far luce sul caso Interlandi». Peruzzi raccoglie le prove, le consegna ad Alfieri e poi riferisce anche a Bocchini, che lo liquida con una battuta: «Hai fatto una fatica inutile perché purtroppo Interlandi non sarà mai toccato in quanto nella faccenda degli ebrei troppe personalità sono coinvolte, non esclusi gli stessi familiari di Mussolini».
Interessante è la storia di Roberto Farinacci, il ras di Cremona, squadrista, antisemita, filonazista, al fianco di Mussolini anche durante l’avventura di Salò e per questo fucilato dai partigiani il 28 aprile 1945. L’immagine che tenne a dare di sé fu quella del «paladino della rivoluzione fascista, duro e puro», «integerrimo e votato alla causa», impegnato in una «personalissima battaglia contro gli affaristi, i corrotti, e i profittatori di regime, contro chi sfruttava il partito per arricchirsi». L’inchiesta sui suoi arricchimenti durerà dal 1943 al 1956 e il suo patrimonio sarà valutato, nel 1949, in una cifra astronomica: 614 milioni e 627 mila lire. Tanto per dare un’idea delle proporzioni, precisano Canali e Volpini, nel 1938 un senatore del Regno guadagnava annualmente tra le 20 e le 25 mila lire, un maestro tra le 9 e le 13.500 lire, un operaio 4.238 lire. Farinacci non poté godere del patrimonio accumulato perché fu giustiziato come si è detto nel 1945, ma aveva sistemato le cose in modo che ne potessero usufruire i suoi familiari. Alla fine, dopo undici anni di battaglie legali, i suoi eredi riusciranno a «salvare» una somma di oltre 600 milioni, «pagando una cifra irrisoria in comode rate e cedendo appena poco più di due ettari di terreno e una società in gravissime condizioni economiche, che nessuno più voleva, dopo averla comunque depredata di una bella fetta del suo patrimonio immobiliare».
Più «fortunato» di tutti è il sindacalista Edmondo Rossoni, nato nel 1884 a Tresigallo in provincia di Ferrara. Sindacalista rivoluzionario all’inizio del Novecento, fu denunciato la prima volta nel 1903 quando aveva solo diciannove anni e in seguito fu costretto a fuggire in Francia, negli Stati Uniti, in Brasile. Al momento della marcia su Roma, Rossoni ha già trentott’anni. Non è uno dei più giovani tra i seguaci di Mussolini. Poi però diviene capo dei sindacati fascisti, deputato per tre legislature, consigliere nazionale alla Camera dei fasci e delle corporazioni, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, ministro dell’Agricoltura e Foreste e membro del Gran Consiglio dal 1930 fino all’ultima seduta del 25 luglio 1943, quando con il suo voto favorevole all’ordine del giorno di Dino Grandi è tra i gerarchi che provocheranno la caduta del fascismo. È uno dei protagonisti di Canale Mussolini di Antonio Pennacchi (Mondadori). Tra il 1922 e il 1925, registrano Canali e Volpini, «i contratti conclusi dalle corporazioni fasciste furono peggiori di quelli stipulati dalle associazioni “rosse” negli anni precedenti, sia in termini di paghe che di condizioni di lavoro». E Rossoni divenne improvvisamente agiato. Nel 1924 comprò a Roma un sontuoso appartamento ai Parioli e un podere di cinque ettari a Tresigallo. Ma fu solo l’antipasto.
Nell’ottobre 1925, con il patto di Palazzo Vidoni tra la Confindustria e la Confederazione delle corporazioni fasciste, il gerarca ottenne il monopolio della rappresentanza operaia e nel 1926 il riconoscimento giuridico di un solo sindacato nazionale per categoria. Così Rossoni diviene «uno degli uomini più potenti d’Italia». Nel novembre 1927, lascia i Parioli e si trasferisce in via Veneto «che non è ancora il cuore della “dolce vita” ma è già il grande boulevard degli hotel esclusivi» L’Ovra raccoglie le confidenze di un ufficiale della milizia che racconta di «un appartamento addirittura principesco, con salotti numerati, servi in livrea, camerieri e governanti».
Nel dicembre del 1928, Mussolini – alle cui orecchie sono giunti i mormorii sulla vita da satrapo del «sindacalista» (Curzio Malaparte lo definì «la miglior forchetta del Regime») – prova ad esautorarlo disponendo il cosiddetto «sbloccamento», attraverso il quale l’organizzazione dei lavoratori guidata da Rossoni viene smembrata in sei confederazioni nazionali. La risposta di Rossoni è un dossier su Mussolini che contiene notizie su illeciti del Duce che risalgono addirittura alla stagione che precedette la nascita del fascismo.
Circola anche la voce che Rossoni sia fuggito all’estero «ben foderato di milioni». Ma il ras del sindacalismo fascista resta invece a Roma e nel 1929 compra una lussuosa villa ad Anzio. Magione che incuriosisce il capo del fascismo. Quinto Navarra, il cameriere di Mussolini, racconta nelle sue memorie: «Un giorno il Duce mi passò una lettera anonima nella quale si diceva che Edmondo Rossoni nella sua villa di Anzio possedeva un bagno con acqua di colonia corrente… Mussolini andò su tutte le furie e diede l’incarico a un funzionario della segreteria di assumere informazioni… Si riuscì a sapere, poi, che nel bagno di Rossoni esisteva un rubinetto per il profumo, ma era un rubinetto applicato a un grosso vaso di vetro contenente acqua di colonia».
La villa viene intestata all’amante di Rossoni, Anna Piovani, da cui l’uomo politico ha avuto una figlia, Itala. L’Ovra si accanisce contro la Piovani e scopre che è una prostituta e ha a sua volta un amore: «Batteva il marciapiede di Via Condotti per sovvenzionare l’amante del cuore, un certo Oscar». Secondo un informatore la Piovani è anche comparsa nuda in un film di Augusto Genina. Alla sua sarta di fiducia avrebbe confidato che Rossoni «ha piazzato al sicuro diversi milioni nelle banche d’America». Le piace giocare a poker, balla «in modo un po’ sguaiato» e ha nuovi spasimanti tra i quali «un noto baro, certo Mario Ventunni» definito nella relazione «cocainomane». Ma Rossoni continua ad intestarle i beni.
Giuseppe Bottai nel suo diario riporta una lettera anonima del 1935 che definisce Rossoni «imboscato, poligamo, cornuto, ladro». Bottai e Augusto Turati allertano Mussolini sulle trame di Rossoni; il Duce però lo riabilita e il «sindacalista» riprende la marcia trionfale. Nel dopoguerra Piero Calamandrei troverà il dossier sulle ruberie di Rossoni e le prove che Mussolini sapeva tutto di lui. Ne trarrà questa conclusione: «Gli uomini per governare devono essere corrotti, o meglio devono essere corrotti per poterli ricattare… Quel dossier doveva servire a Mussolini per tenerlo schiavo». Schiavo sì ma fino al 25 luglio del 1943, quando Rossoni lo tradirà. Per riparare subito dopo in Vaticano, in un monastero sull’Appennino, a Dublino e in Canada. E poi tornare in Italia amnistiato nel dopoguerra, concordare un relativamente modesto risarcimento all’erario, tenere per sé qualche decina di milioni e trovare la morte nel 1965, a 81 anni, dopo un’ultima stagione vissuta in un’agiata tranquillità. Grande libro quello di Canali e Volpini.