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 2019  marzo 04 Lunedì calendario

L’Italia perde le cariche in Europa

Comprensibilmente assorbiti da lunghe partite a scacchi attorno a ogni ufficio pubblico nel Paese, da Banca d’Italia, a Consob, alle società di Stato, all’istituto di previdenza, noi italiani rischiamo a volte di perdere di vista il quadro generale. Considerate questo fatto singolare per una nazione sempre preoccupata di non contare mai abbastanza in Europa: oggi si trovano degli italiani negli incarichi di massimo potere in quasi tutto ciò che abbia a che fare con l’Unione europea. 
Sono italiane le persone alla testa della politica monetaria nell’area euro, della vigilanza bancaria, del Parlamento di Strasburgo, della commissione parlamentare più importante, della politica estera dell’Ue, della direzione affari economici e finanziari e alla guida dell’analisi sull’Antitrust nella più potente delle amministrazioni di Bruxelles: la Commissione europea. C’è una strana ironia anche nel fatto che quando mesi fa un altro italiano, Giovanni Kessler, lasciò uno snodo di controllo com’è l’ufficio anti-frode della Ue (Kessler era stato chiamato a dirigere l’Agenzia delle dogane a Roma), fu nominato un finlandese dal nome singolare: Villa Itälä. 
In Italia a stento esiste consapevolezza della presenza di tanti connazionali nei posti di responsabilità in Europa. Anche quando lo sappiamo, non ce ne ricordiamo: la narrazione sull’Italia vittima di qualche complotto a Bruxelles funziona molto meglio. C’è ancora meno consapevolezza del fatto che per lo più l’essere italiani di solito non ha né impedito, né favorito l’ascesa dei connazionali oggi al vertice del sistema. Sono dove sono perché ciascuno di loro si è fatto apprezzare. È così per il presidente della Banca centrale europea Mario Draghi, per il suo omologo nella vigilanza bancaria della Bce Andrea Enria, per il presidente dell’Europarlamento Antonio Tajani, per quello della commissione parlamentare Economia e finanza di Strasburgo Roberto Gualtieri, per la vicepresidente della Commissione Ue con incarico per la politica estera Federica Mogherini (appena nominata da Euractiv secondo miglior commissario Ue subito dopo Margrethe Vestager), per il direttore generale Economia e finanza della stessa Ue Marco Buti e per il capoeconomista dell’Antitrust alla Commissione Tommaso Valletti. 
L’ingranaggio europeo, almeno quello delle cariche politiche, resta da decenni un ibrido di due manuali Cencelli: uno per nazionalità e l’altro per «famiglia politica» (in base a quest’ultimo fino a ieri popolari e socialisti si spartivano tutto). Ma la capacità personale e l’omogeneità culturale al sistema restano fattori determinanti per la scelta dei singoli, quando la lista dei nomi si è ristretta. 
Candidato forte 
Per il commissario Ue conta più la credibilità personale che l’appartenenza politica 
Andrea Enria, 57 anni, non era considerato il candidato più forte per succedere alla francese Danièle Nouy alla vigilanza bancaria Bce. Il sostegno della Germania, della stessa Nouy e il fatto di essere donna dove gli uomini sono molti di più favoriva l’irlandese Sharon Donnery. Poi il Parlamento Ue ha ascoltato a lungo entrambi i candidati e mandato una raccomandazione chiara a Draghi. D’altra parte anni fa fu tagliato fuori dal comitato esecutivo della Bce il belga Paul De Grauwe, forse il miglior macroeconomista in Europa, in fondo solo perché aveva idee disomogenee rispetto alla cultura dominante. Non è politicamente corretto dirlo, ma una dose minima di conformismo non ha mai fatto male a nessuno quando si tratta di ripartire e affidare il potere in un sistema composito. 
C’è poi un ulteriore aspetto che in Italia si tende a dimenticare: gran parte delle posizioni di autorità dei nostri connazionali in Europa nel 2019 vengono meno. Scadono i mandati di Draghi, Tajani, Mogherini, Gualtieri e Buti. Se il Paese (non solo il governo) vuole continuare ad avere un livello granulare di informazione e visibilità sulla macchina dell’Unione europea, questo è il momento in cui deve chiedersi come fare. L’esperienza mostra che la chiave di tutto è avere candidati all’altezza. Questo dovrebbe suggerire ai partiti di formare liste del massimo livello per l’Europarlamento, in modo da avere candidati riconosciuti e stimati per i suoi posti più importanti. 
Ci sono poi altre due partite, se possibile ancora più complesse. Con l’uscita di Draghi in ottobre per la prima volta dall’avvio dell’euro l’Italia rischia di non avere una persona nel comitato esecutivo della Bce. La possibilità di restare fuori è concreta, se il Paese non presenta un candidato apprezzato in Europa: la vicinanza al governo conta meno della credibilità personale. Per quanto criticato da molti per la sua condotta in Europa, lo stesso Silvio Berlusconi da premier spesso ha seguito questo criterio. Né Draghi alla Bce, né Mario Monti nominato nel 1994 alla Commissione Ue avevano mai dimostrato simpatie per il centrodestra. 
Infine la scelta più delicata, quella per la Commissione Ue. Come dimostra la recente intervista del presidente dell’Associazione bancaria Antonio Patuelli al «Corriere», in Italia si avverte l’esigenza che il prossimo commissario Ue mandato da Roma abbia un portafoglio economico di peso. Vista la maggioranza sovranista a Roma, c’è poi una sfida in più: per la prima volta l’Europarlamento dovrà votare la fiducia a un commissario Ue italiano che è all’opposizione della probabile maggioranza di Strasburgo formata da popolari, socialdemocratici e dei liberali di Emmanuel Macron e Guy Verhofstadt. Alcuni non aspettano altro che un nome italiano debole per impallinarlo meglio. È il caso di dargliene uno forte.