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 2019  marzo 03 Domenica calendario

Nanni Moretti racconta il suo nuovo film. Intervista

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La Vespa bianca nuova (quella storica, di Caro Diario, è al Museo del Cinema di Torino) è parcheggiata davanti al cancello della palazzina, un bell’edificio dei primi del Novecento in zona Prati, a Roma. Larghe scale bianche si avvolgono maestose tra i piani, mentre la luce della primavera anticipata si riflette sul parquet: era una scuola religiosa, i proprietari oggi la vendono per dieci milioni di euro. Nel frattempo, per 16 settimane, questo edificio sarà il set del nuovo film di Nanni Moretti, in partenza domani. Titolo provvisorio Tre Piani, tratto dal romanzo omonimo dell’israeliano Eshkol Nevo, prodotto da Sacher Film e Fandango con Rai Cinema e Le Pacte: il primo film che il regista realizza da un soggetto non suo (ma lo scrittore «non è stato coinvolto» e la sceneggiatura è firmata da Moretti con Federica Pontremoli e Valia Santella), con un importante lavoro di preparazione alle spalle, durato mesi, per trasformare una scatola vuota nell’elegante condominio in cui si intrecciano le vicende. Tutto quello che apparirà sullo schermo – e quello che non apparirà: sartoria, mensa, uffici di produzione, sala trucco – è frutto di un lavoro minuzioso di ricostruzione: ambienti ricavati «anche dalle minuscole stanzette delle suore», bagni e cucine costruiti dal nulla, una veranda. Persino il giardino, le piante e il verde che si intravedono dalle finestre sono stati creati per il film.
Quanto alla storia, «mantiene lo spirito del libro, ma con dei cambiamenti sostanziali»: tre famiglie, tre appartamenti nello stesso condominio «in una generica città italiana», tre storie di vita quotidiana «che si intrecciano più di quanto accada nel romanzo». Un cast numeroso – Riccardo Scamarcio, Margherita Buy, Alba Rohrwacher, Adriano Giannini, Elena Lietti, Denise Tantucci, Alessandro Sperduti, Anna Bonaiuto, Paolo Graziosi, Tommaso Ragno, Stefano Dionisi e lo stesso Moretti – e una squadra affiatata, con la scenografa Paola Bizzarri già responsabile del miracolo di Habemus papam e le musiche di Franco Piersanti al settimo film col regista. Moretti attraversa gli ambienti, saggia i muri, controlla scrupoloso alcuni oggetti di scena. Molti provengono da casa sua: piatti, vasi, ciotole, quadri, lampade, un fermalibri, una quarantina di volumi della Treccani dei genitori. C’è anche una piccola riproduzione della Vespa: «Questa abitudine di portarmi le cose da casa c’è l’ho da sempre, mi piace – sospira – ma col tempo forse sto esagerando».
Perché adattare Tre Piani?
«Con Pontremoli e Santella avevamo lavorato su un paio di soggetti, che ho messo da parte perché non mi soddisfacevano. Era un periodo in cui stavo cercando nei libri, anche polizieschi, ispirazioni e idee. Quando Federica mi ha suggerito di leggere Tre Piani, mi è sembrato subito giusto per il mio film. Ma non so dire perché: più passa il tempo, più mi piace il mio lavoro e meno riesco a spiegarlo, a teorizzare. Forse se l’avessi letto dieci anni fa non avrei avuto la stessa reazione».
Il cast non è scontato. Come l’ha messo insieme?
«Con i provini. Li hanno fatti tutti tranne Margherita Buy. È il quarto film di seguito che facciamo insieme: saremo una coppia di giudici e Sperduti interpreterà nostro figlio. Scamarcio lo seguo da tempo e l’ho trovato bravissimo in Euforia. Il processo di casting è stato molto lungo. Ma sono contento di cominciare il film, stavolta, con tutti i ruoli già assegnati, anche quelli piccolissimi».
Perché non gira in un teatro di posa?
«Mi piace intervenire sugli ambienti veri e usarli come se fossero teatri di posa. È successo con la piscina di Palombella Rossa, con la chiesa de La messa è finita e con la mia scuola elementare, la Giacomo Leopardi, diventata il liceo Marilyn Monroe in Bianca».
Girare 16 settimane è impegnativo.
«Per una serie di circostanze fortunate io non faccio perdere i soldi a produttori e finanziatori. Finché i soldi ci sono, li utilizzo per le riprese. Perché ho bisogno di tempo. Senza entrare nei particolari della trama, anche la sceneggiatura come il romanzo si divide in tre parti».
A proposito di successi. Il suo documentario Santiago, Italia uscito con sole 35 copie ha fatto più pubblico di commedie che ne avevano 300. Se l’aspettava?
«In tanti oggi ce l’hanno a morte col cinema d’autore. E per deriderlo usano due brutte e logore espressioni: cinema due camere e cucina o film ombelicali. Secondo me il problema del cinema italiano non sono i film d’autore, ma i film in teoria commerciali che poi in pratica non lo sono per niente, quelli fatti per il pubblico che poi il pubblico non va a vedere. Sì, certo, ci sono piccoli film d’autore magari un po’ pretenziosi e involuti. Ma è più grave che ci sia tutta una serie di film commerciali – in realtà sciatti, uguali tra loro e con poche idee – che nessuno vuole andare a vedere».
Santiago, Italia è il film per il quale si è speso di più con il pubblico. Perché?
«Mentre lo giravo mi chiedevo perché stessi investendo tanto tempo ed energie in quel documentario, mentre c’era il mio nuovo film che aspettava e a cui mi dovevo dedicare. Poi l’ho capito. Perché Santiago, Italia stava involontariamente, indirettamente ma non casualmente parlando anche dell’oggi. Un film sull’accoglienza uscito in un momento in cui un gran pezzo della società italiana, purtroppo, ha preso una direzione opposta ai valori dell’accoglienza».
Parentesi politica: andrà a votare alle primarie?
«Certo che andrò a votare, sono un elettore del Partito democratico. Mi piace tanto votare, non posso farci niente».
Tornando ai film d’autore: Roma di Alfonso Cuarón l’ha visto?
«Sì, ma c’è una cosa che non mi piace per niente. Cuarón dopo aver fatto il film l’ha subito venduto a Netflix. Voglio dire: sei un regista famoso nel mondo, sei riuscito a fare il tuo film senza i loro soldi... capisco che è più faticoso e meno remunerativo, ma perché non darlo alle decine di distribuzioni cinematografiche nel mondo che lo stanno aspettando, e poi dopo, solo dopo che ha fatto la sua vita nelle sale, darlo a Netflix? Ogni tanto ai soldi si può anche dire di no».