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 2019  marzo 03 Domenica calendario

Nella soffitta di d’Annunzio

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«Peccato che i signori vadano così di fretta...». Gabriele d’Annunzio ostenta dispiacere. I suoi ospiti sudano, puntano l’uscita. Ringraziano, si scusano. Sono in tre, giunti al Vittoriale sognando un’intervista fiume con il padrone di casa. Eppure qualcosa va storto: abbozzano domande e non insistono, la curiosità si spegne sulle labbra di volti paonazzi. In quelle stanze, in effetti, manca l’aria e non è colpa dell’opulenza degli arredi. I «robusti genovesi» (sarà il Vate a chiamarli così) non lo sanno ma sono vittime di uno stratagemma architettato dal poeta-soldato con la complicità di una fedele compagna: la stufa d’oro, accesa a tutta forza. Fuori sfolgora l’estate del 1921, dentro il clima è torrido. L’istrione si concede perché deve, c’è pur sempre un pubblico da accontentare, ma il suo intento è ridurre la permanenza (e l’invadenza) dei visitatori. Nella Sala della musica diventata tropicale la chiacchierata si fa monologo e il monologo in dieci minuti è finito: obiettivo raggiunto. 
L’aneddoto dei gentiluomini surriscaldati passa di bocca in bocca, i resoconti del segretario Tom Antongini lo riportano fra i tanti che cesellano il profilo quotidiano di uno dei più grandi intellettuali del secolo scorso: scrittore, drammaturgo, poeta, giornalista, militare, politico, seduttore, asceta e altro ancora, Gabriele d’Annunzio ha condotto «una vita inimitabile» anche nel privato. Lo testimonia la sua ultima dimora, dai saloni alle soffitte. E se i primi sono ben noti ai visitatori che ogni anno a Gardone Riviera (Brescia) si mettono in coda per vederli da vicino, le altre sono scoperta recente. Nelle soffitte della casa-museo nessuno era mai entrato. Nessuno aveva esaminato gli oggetti radunati lì (fra questi le costose stufe gioiello), cristallizzati alle 20.05 del primo marzo 1938, quando il Poeta morì nel suo studio. Nessuno, fino a ora: Giordano Bruno Guerri, presidente della Fondazione che si prende cura della cittadella costruita tra il 1921 e il 1938, ha salito quei gradini e si è messo a cercare. L’ha fatto da solo, poi accompagnato da una équipe scientifica, inseguendo un obiettivo: «Riaprire ogni singolo spazio entro il 2021». Con un silenzioso lavoro durato 5 anni, il contenuto dei solai è stato censito, i pezzi più preziosi mandati al restauro. Un patrimonio che ora esce dalla polvere visto che, dal 9 marzo, sarà protagonista della mostra D’Annunzio ritrovato . È l’ultimo traguardo di un’operazione di recupero degli oggetti quotidiani del Vittoriale: gioielli, vestaglie, scarpe, i collari dei leggendari levrieri del Comandante (che poi non erano solo levrieri). Guerri dal 2008 osserva una filosofia: «D’Annunzio voleva che venissero ricordate non solo la sua opera letteraria e le sue imprese belliche, ma anche la sua vita quotidiana». Lo precisa l’atto del 22 dicembre 1923 con cui il proprietario dona la dimora agli italiani: «Ogni oggetto raccolto nelle diverse età della vita fu sempre per me un modo di espressione. Per ciò m’ardisco a offrire al popolo italiano tutto quel che mi rimane». Guerri, storico e scrittore, prosegue: «Abbiamo cominciato ad aprire gli armadi e svuotare i cassetti, dimenticati per decenni». Dalle camere s’è passati alle cucine e ora in soffitta. «Oggetti in attesa di un destino, a riposo, pronti all’uso. Lassù ci sono opere d’arte di discreto valore: un volto databile al II secolo a.C., carboncini ottocenteschi del tedesco Hans Thoma. Altri pezzi sono anonimi, soprammobili non graditissimi in attesa di destinazione». Le sedie: «Decine, di ogni ordine e grado di comodità a seconda dell’ospite». Poi i bauli: «Enormi, in pelle, 12 pezzi. Il Vate viaggiava con decine di completi». È l’armamentario del dandy che tanto ricorda l’Andrea Sperelli del Piacere.
Nei sottotetti il rimando tra vita minuscola e letteratura è continuo. La più datata tra alcune selle accantonate richiama Murgione, cavallo che nel Primo vere il sedicenne Gabriele soprannomina Silvano: «T’amo o Silvano! M’è dolce l’acuto nitrito». Infine, le stufe: «D’Annunzio esigeva sempre almeno 30 gradi». Sono 4, in ottone dorato perché al Vittoriale tutto, ma proprio tutto, era lusso. 

Prima dei tesori delle soffitte, la Fondazione aveva riportato in pubblico cimeli altrimenti destinati all’oblio. L’anello con il veleno indossato nel sorvolo di Vienna nel 1918, il cappello dell’incontro con il Duce del 25 maggio 1925 («D’Annunzio rispettava Mussolini come demiurgo giunto al potere, ma era ostile a Hitler e questa è una prova del suo distacco dal fascismo»). Trecento paia di scarpe, vestaglie e ancora vestaglie, «sue e delle amanti. Per comporre i romanzi aveva bisogno di emozioni forti. Viveva come un sultano: era lui stesso a scegliere, decorare e fornire ogni accessorio alle dame di passaggio». Lo aiuta la governante francese Amélie Mazoyer. La rivalità fra lei e Luisa Baccara, veneziana diventata la Signora del Vittoriale (ma d’Annunzio mai divorziò da Maria Hardouin di Gallese) è alimentata dal Vate: «Le due donne – racconta Guerri – per volere del padrone di casa dovevano condividere il bagno, vivevano in stanze contigue, oggi non incluse nel percorso di visita». Ovunque aleggiavano profumi speciali: «Preparava lui le fragranze». 
D’Annunzio romanziere e interventista ma pure alchimista, arredatore, pittore. Restituirne l’immagine integrale, per la Fondazione, è un obbligo culturale. «Se la lingua del Vate è sempre più difficilmente praticabile per la sua opulenza, la biografia è talmente affascinante da farne una figura universalmente nota: il capolavoro di maggiore successo è la sua vita. Scandagliando la normale anormalità scendiamo nella profondità di un uomo che anche nel quotidiano è coerente alla propria immagine, al racconto della propria diversità». Nel giugno 1926 il Vate invia una lettera al progettista del Vittoriale, Gian Carlo Maroni: «Chiedo a te l’ossatura architettonica, ma io mi riservo l’addobbo. Desidero inventare i luoghi dove vivo». E inventando quei luoghi ha continuato a scrivere di sé.