La Lettura, 3 marzo 2019
Il thriller del pronipote di Dracula
Come figli d’un nume malevolo, i discendenti di Dracula si sono moltiplicati mutando forme, costumi e contesti da quando il romanzo di Bram Stoker fu messo in vendita dall’editore Archibald Constable & Company di Westminster al prezzo di 6 scellini. Era il 26 maggio 1897. Oggi ogni volume di quella prima tiratura – tremila copie, la copertina rigida gialla – vale una piccola fortuna (fino a quarantamila dollari per una copia con dedica) e, a ben vedere, tutto ciò che nel frattempo hanno sfiorato le sottili, pallide mani del conte vampiro si è trasformato in un successo straordinario.
Nonostante Dracula abbia raggiunto milioni di lettori, gran parte della sua fortuna fu merito dei sensazionali spettacoli teatrali che Hamilton Deane, attore e impresario irlandese, mise in piedi in Inghilterra a partire dal 1924 e portò a Broadway nel 1927. Veri show, con tanto di pipistrello volante sulle teste degli spettatori terrorizzati, che fecero da modello alla trasposizione cinematografica di Tod Browning (1931) con Bela Lugosi nei panni del conte. Con il grande schermo il ghiaccio lo aveva già rotto il Nosferatu di Murnau con un plagio non autorizzato dalla vedova di Stoker che vinse la causa e riuscì a far ritirare prima e poi bruciare tutte le pellicole, tranne una. Quella appartenuta al regista tedesco. Negli anni Sessanta e Settanta il grande mattatore col mantello fu Christopher Lee con una decina di titoli, molti dei quali improbabili. Nei primi Novanta uscì il suntuoso Dracula di Bram Stoker con Gary Oldman per la regia di Coppola. Il teatro non ha mai smesso di riproporne adattamenti – tra marzo e aprile Sergio Rubini e Luigi Lo Cascio porteranno Dracula sui palcoscenici italiani – e il cinema ha continuano a rivisitarne il mito (tra le tante spiccano le trasposizioni del romanzo di Anne Rice, Intervista col vampiro, e della saga di Twilight di Stephenie Meyer). Anche la «nuova tv» ha cavalcato l’onda lunga del vampiro con svariate serie che si arricchiranno nel 2020 del Dracula di Steven Moffat e Mark Gatiss, gli ideatori di Sherlock, per Netflix e Bbc. Malgrado ciò, il romanzo fu accolto con sospetto e freddezza dai critici e solo di fronte all’enorme diffusione cinematografica si aprì il dibattito sul valore dell’opera letteraria.
Da allora, Dracula è stato letto come mito del terrore, del fantastico, della paura del diverso, del ribaltamento delle leggi naturali, dell’incubo luminoso di una vita inesauribile; è stato additato come metafora politica di un mondo antico, estraneo e misterioso, aristocratico, che spaventava la borghesia industriale inglese di fine Ottocento; come simbolo della battaglia tra la tecnologia e una superstizione che ha a che fare col profondo, col rimosso, con l’archetipo del grande male e del suo fascino; è stata indagata l’estetica del mostro, dell’uomo della notte, del misogino, dell’omosessuale, e via dicendo. Ipotesi di ricerca tracciate dagli studiosi di ogni latitudine che si sono però concentrati meno sulle fonti e sulle suggestioni del folklore irlandese.
In questo senso Dracul, il romanzo di Dacre Stoker – pronipote canadese di Bram – e J. D. Barker in uscita a giugno in Italia per Nord, rende giustizia alla radice dublinese e alle fortissime influenze cui Stoker soggiacque durante i primi anni di vita. Un’infanzia tanto malferma e precaria da costringerlo lungamente a letto, ma lo stesso capace di produrre esiti insperati nell’uomo che sarebbe diventato: un gigante fulvo di barba e di capelli, campione di rugby e colto rappresentante dell’alta borghesia londinese. I suoi biografi sono tutti concordi nel dire che, durante quei sette anni trascorsi nella mansarda al numero 15 di Marino Crescent a Clontarf, accadde qualcosa di straordinario. Minato da frequenti febbri spossanti, Bram ascoltava le storie fantastiche, e assai poco adatte a un bambino, della madre. La Grande Carestia era passata da poco e aveva lasciato milioni di persone morte sul suolo di un’Irlanda impoverita, malata e schiacciata dal giogo britannico e costrette a emigrare in Inghilterra, in America e in Australia. Gli anni delle febbri e del tifo erano giunti dopo un’epidemia di colera da cui Charlotte Blake, la mamma di Bram, era scampata per miracolo nella sua Sligo, nell’ovest dell’isola. Di quei racconti – del becchino che bussa di casa in casa per sapere se c’è bisogno dei propri servigi, dello spettacolo macabro dei corpi accatastati sopra casse straripanti, di vivi sepolti assieme ai morti, di episodi di cannibalismo – Charlotte non risparmiò i particolari peggiori a suo figlio e su quelle storie tragicamente reali innestò le leggende del folklore gaelico. Così, le banshee (spiriti di donne forieri di morte), i changeling (folletti maligni che rapiscono i bambini, succhiano loro la vita o vi si sostituiscono in culla) e i na neamh mairbh (non-morti) di quell’Irlanda arcaica e rurale popoleranno la fantasia del giovane Bram che li ritroverà, trasfigurati, molti anni più tardi nelle superstizioni di un’altra area selvaggia ed isolata. La Transilvania.
Se quel nucleo antico e infantile è senza dubbio il primo seme del romanzo di Stoker, si può dire che in Draculsia sbocciato un germoglio. Perché questo nuovo romanzo riesce a legare con un filo nero l’invenzione letteraria e la vicenda biografica di Bram prendendo spunto da un suo diario ritrovato nella soffitta in una casa sull’Isola di Wight. Così i due autori hanno immaginato e rimescolato con grande abilità i motivi del capolavoro originale con risultati sorprendenti. La qualità ipnotica della prosa di Stoker si rinnova in Dracul accresciuta dal ritmo del thriller contemporaneo. C’è tutto, una storia carica di emozioni, veloce e spaventosa, un mistero che segna come una piaga la famiglia di Bram, accompagnandone i primi anni e la miracolosa – oscura – guarigione per riannodarsi infine a Dracula con una credibilità che mette i brividi addosso.
Stoker amava raccontare come Dracula fosse sbocciato all’improvviso nella sua mente grazie a un incubo dopo un’abbuffata di zuppa di granchi: quella notte aveva sognato un re vampiro che usciva da una bara. A differenza delle altre opere – una dozzina di romanzi e numerosi racconti, saggi e resoconti – però, la messa a fuoco e la progettazione di Dracula presero forma con grande lentezza. Sette anni di appunti, ripensamenti e difficoltà, che trovarono soluzione nella mescolanza di una lunga serie di elementi e di fonti eterogenee. Oltre alla biografia dell’autore, va considerata l’enorme influenza del teatro: Stoker fu appassionato shakespeariano, recensore teatrale per il «Dublin Evening Mail», manager dell’attore Henry Irving (da cui prese spunto per alcune pose del conte) e direttore del Lyceum di Londra. Quelle letterarie: Wilkie Collins de La donna in bianco (1859) per la struttura epistolare e le atmosfere, la componente investigativa di Conan Doyle, il Poe dei racconti sulle sepolture premature e ovviamente Il vampiro di John Polidori (1819) e Carmilla di Sheridan Le Fanu (1872). Fondamentali furono poi gli anni al Trinity College dove fu presidente della College Historical Society e della University Philosophical Society: un laboratorio per le ricerche storiche, geografiche, filosofiche e antropologiche che costituiranno la base «reale» del romanzo.
Due di queste idee furono il regalo inatteso che il professor Arminius Vambery, linguista e storico ungherese dell’Università di Budapest, a Londra per una serie di conferenze, fece a Stoker nel 1890. Durante una cena al Lyceum gli raccontò storia, usi e costumi della Transilvania, di cui lo scrittore studierà per anni una serie di baedeker consultati al British Museum e i due tomi di The Land Beyond the Forest (1888) di Emily Gerard. La seconda? Il Dracula storico, Vlad III di Valacchia (1431-1477). Stoker rimase affascinato dal racconto di Vambery sul voivoda capace di meritarsi l’immortale soprannome di Tepes, «l’impalatore», presso i romeni e Kazikli Bey, «il principe impalatore», tra i turchi. Come suo padre Vlad II Dracul (da cui il patronimico Dracula, «figlio del drago» e solo successivamente, per uno slittamento semantico dall’ambito cavalleresco a quello mitico-popolare «figlio del diavolo»), Tepes fu membro dell’Ordine del Drago (fondato nel 1408 da Sigismondo di Lussemburgo, re d’Ungheria e imperatore del Sacro Romano Impero) e regnò in tre periodi differenti tra il 1448 e il 1476 costruendo la propria leggenda in vita.
La leggenda è quella di un sovrano che aveva gli occhi del mondo occidentale contemporaneo su di sé. Tanto che Enea Silvio Piccolomini, papa Pio II, nei suoi Commentarii rerum memorabilium ebbe per quello che chiamava «Iohannis Dragulae» parole di sdegno (atrox nequitia et natura immanis) che nascondevano un’ammirazione tale da decidere di affidargli il comando di una crociata (sollecitata ma mai partita) contro Maometto II, il sultano ottomano che minacciava i confini balcanici dell’Europa cristiana.
Da questa suggestione biografica, e dalla fantasia narrativa di Matteo Strukul nasce la graphic novel Vlad, le lame del cuore per Feltrinelli Comics. Strukul firma il primo volume della trilogia in cui ci mostra e ci racconta, tutto insieme, il guerriero spietato e l’umanista colto e illuminato. Con le tavole disegnate da Andrea Mutti e colorate da Vladimir Popov, Strukul traduce la potenza fascinante della storia e strappa il mantello nero dalle spalle del Dracula letterario per ricucirgli addosso la corazza del sovrano capace di catturare, quattro secoli e mezzo più tardi, la morbosa fantasia di Stoker.
Il risultato è un’opera agile e preziosa – le atmosfere cupe e affilate non ammiccano all’universo del gotico – che mette in scena i giochi di potere, la guerra con il sultano, i metodi disumani – celebre la crudele foresta di pali – con cui Vlad trattava sudditi e nemici. Una violenza che nel fumetto confligge drammaticamente con il grande amore per la nobildonna Katharina von Siegel e che mette a nudo l’anima, selvaggia e seducente, del superbo lupo valacco.