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 2019  marzo 03 Domenica calendario

Intervista a Fabio De Luigi

Da tre settimane è in testa al box office, con un incasso di 6.2 milioni di euro.  10 giorni senza mamma è l’ennesimo, pesante successo di Fabio De Luigi che con i suoi film, in 14 anni, è arrivato a quota 200 milioni solo di botteghino. 
Ha preso il vizio? 
«Scelgo progetti che mi piacciono, più che altro. Anche gli ultimi erano andati bene... ora è arrivata la ciliegiona, il melone sulla torta. Se fai un film di respiro popolare, lo scopo è che venga visto». 
Il «respiro popolare» spesso non è un complimento... 
«Lo so, ma non la vedo così, non penso significhi abbassare il tiro. Temo che, con la commedia, si metta tutto nello stesso calderone, superficialmente. Se poi incassa ed è italiana, di default deve essere un film brutto. Ma il box office non determina la qualità». 
Continua a considerarsi un attore comico? 
«Questo sono. Mi piacciono i ruoli comici, brillanti: è un cinema che faccio molto volentieri e penso mi riesca, non vedo perché cambiare. Non ho frustrazioni. Non significa non abbia altre curiosità o la voglia di sperimentare linguaggi differenti. Sarebbe bello mischiarsi di più, è vero, e non voglio fare solo una cosa: già a novembre uscirò con un film molto diverso. Ricevo quasi esclusivamente copioni per questi progetti, ma quando ne capitano altri, li considero, ci penso magari un anno e ci provo». 
Nel film è un papà alle prese con i figli, delegati per anni alle cure dalla mamma... 
«Non c’è sempre e solo una parte femminile che deve rincorrere gli uomini. Gli uomini devono spesso dimostrare di essere all’altezza, alla pari nell’educazione dei figli». 
Così non si rafforza uno stereotipo da superare? 
«Lo stiamo superando. Non sono un papà come quello del film e nemmeno Genovesi, il regista. La commedia parte da stereotipi per arrivare ad altre conclusioni: il padre riprende centralità». 
Ha due figli, Dino e Lola. Come è cambiata la sua vita da quando è papà?  
«Eviterei la retorica su quanto è bello avere figli, visto che penso sia la prima causa del crollo della natalità. Però sì, sono stato travolto. Ora evito impegni che mi tengano a lungo lontano. Ho avuto la fortuna di capire presto – e non dopo, come succede ad altri, quando però non puoi più farci niente —, che la loro crescita è un periodo di tempo ristretto di cui vorrei perdere il meno possibile». 
I pannolini? Cambiati? 
«Sono un grande campione del passato di cambio pannolini, sì. Ora sono grandi, ho appeso il talco al chiodo. Ero anche un discreto cullatore e un grande inventore di storie della buonanotte. Spesso mi interrogo su quante cose mi rinfacceranno da grandi...». 
Tra i genitori oggi c’è una diffusa ansia da prestazione. 
«Infatti ho suggerito di iniziare il film con la frase secondo cui chi fa un figlio si dà un giudice per tutta la vita. Ma mi colpisce che quando chiedi ai tuoi genitori il perché di fatti che ti avevano deluso da piccolo spesso non li ricordano». 
Nel suo caso? 
«Una volta si sono dimenticati del mio compleanno». 
Ahi. 
«Ovviamente non se ne ricordavano. Però quando sento i genitori che oggi disquisiscono fuori dalle elementari della qualità del programma didattico o del figlio che a tre anni deve parlare inglese, mi viene da dire: rilassiamoci, scaliamo un paio di marce. Come con lo sport: ora i ragazzi vivono una pressione... quando ero piccolo io dovevi proprio convincerli per farti fare un corso. “Ma sei sicuro? Ma vuoi andarci davvero?”. Per loro era una gran rottura». 
Prima del cinema c’era la tv, la Gialappa’s, le parodie... 
«Ogni tanto mi ferma qualche uomo barbuto – e per me se hai la barba non puoi essere giovane – che mi dice: sono cresciuto con i tuoi personaggi. Ma come, uomo barbuto, come è possibile? Però quella forma mentale non l’ho persa. Guardo, mi informo e quando mi imbatto in qualcuno che mi stimola vorrei buttarmici. Non ci pensavo più molto, ma da un anno mi sta tornando una voglia quasi irresistibile e qualcosa ha iniziato a frullare... vedremo». Mille milioni di incassi, a volte, non bastano.