Corriere della Sera, 3 marzo 2019
Intervista a Carlo Petrini
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La casa di Carlo Petrini a Bra, in provincia di Cuneo, è una casa concepita per non rimanere mai da soli: stoffe vivaci, foto alle pareti, è concentrata attorno a un salottino con tre divanetti in circolo, come a evocare una ininterrotta e fitta conversazione. Gli amici che sono venuti a prendere il caffè stamattina se ne vanno ridendo e lasciando nell’aria un «Carlìn, stame bin» o un «As veduma». Perché stammi bene e ci vediamo suonerebbero irrispettosi se rivolti al fondatore di Slow Food, che è diventato uno degli italiani più famosi all’estero proprio grazie alla piemontesità disincantata e pragmatica dell’esageròma nen.
Cioè «non esageriamo», restiamo con i piedi per terra. A settant’anni e dopo aver dato vita a un’associazione oggi presente in 160 Paesi ci riesce ancora?
«Se così non fosse non continuerei a viaggiare come un forsennato da un capo all’altro del mondo. L’altro ieri sono tornato da un viaggio in California e in Messico. Ho parlato con i contadini, ho incontrato rappresentanti di governo. Una delle ministre messicane oggi è una delegata di Terra Madre, la rete mondiale delle comunità del cibo in seno a Slow Food. Certo, oggi la buonanima di mia madre direbbe che “travaiè l’è n’auta roba”».
Eppure Carlìn è rimasto a Bra. Terra di contadini e di cattolici. Come ha fatto un comunista come lei a fondare Slow Food, Terra Madre, l’università di Pollenzo proprio qui?
«Vede, quando ero giovane qui a Bra di me dicevano: “È un comunista, sì, ma è una brava persona”. La politica non sempre coglie il pragmatismo di certi strati sociali, si illude che tutto sia riconducibile a una questione ideologica. Se fai le cose giuste e sensate e se le fai bene, non serve rincorrere slogan vuoti».
Lei era un comunista che ha sempre parlato prima di tutto alla gente: dalla fondazione della prima radio libera d’Italia a Slow Food.
«Radio Bra Onde Rosse la fondammo (Petrini, Citi, Chiesa e Ravinale, ndr) nel ‘75, comprando un trasmettitore al mercato di Livorno. Alla mattina mandavamo in onda l’Internazionale però poi parlavamo dei prezzi della verdura, mettevamo i piedi per terra. Ce la chiusero due volte. Fino a che non la riaprimmo e chiamai Dario Fo per avere sostegno. Dario e Franca Rame rimasero qui con noi quindici giorni, poi arrivarono anche Benigni e Guccini».
Fu allora che divenne amico di Dario Fo?
«Sì, un legame durato quasi mezzo secolo. Ci facevamo continuamente gli scherzi, una volta lui e una volta io. Poi quando lui morì, mi chiamò il figlio dicendomi che prima di spirare Dario gli aveva confessato una delle sue ultime volontà: ai funerali l’unico autorizzato a prendere la parola sarei stato io. Di colpo capii: quello sarebbe stato il primo vero funerale laico di fronte al Duomo di Milano, con migliaia di persone, tra fan, amici, personaggi e autorità internazionali. Insomma, Dario mi aveva voluto giocare l’ultimo, micidiale scherzo. Mi misi a ridere forte e gliene dissi quattro».
E l’amicizia con papa Francesco?
«Sei mesi dopo la sua elezione mi telefonò. “Sono il Papa”, mi disse semplicemente. E cominciammo a parlare di economia, di sostenibilità, di povertà. Parlavamo con naturalezza, tanto lui il piemontese lo capisce. Da allora è iniziato un carteggio fitto. C’è una sua lettera alla quale tengo molto, gliela mostro: vede? È scritta a mano e porta la data del giorno di Natale, diciamo un giorno per lui... lavorativo».
Nella lettera il Papa dice che lei l’ha fatta ridere con la storia di sua nonna, qual è?
«Mia nonna, cattolicissima di Bra, sposò Carlo Petrini, mio nonno, ferroviere socialista e fondatore del Partito Comunista locale. Quando nel ‘48 i comunisti vennero scomunicati, lui era già morto ma la nonna andò a confessarsi. “Per chi vota lei?” le chiese il prete. E lei rispose che avrebbe votato comunista come il suo povero marito. Il prete le fece notare che non avrebbe potuto darle l’assoluzione. Al che la nonna ci pensò e rispose: “E se la tenga”».
Ancora il pragmatismo della provincia. Ma come ci sente oggi nel vedere che il dialogo con i contadini, e in generale con il «popolo», non è ormai più prerogativa della sinistra?
«La sinistra non ha mai voluto vedere la realtà e cioè che il mondo contadino è molto conservatore. Non solo in Italia, aggiungo».
La grande intuizione di Pasolini.
«E di Nuto Revelli. Ma senza andare lontano, cito un amico, Bartolo Mascarello, grande produttore di barolo: lui era di sinistra ma aveva un forte spirito conservatore. Forse è per questo che noi di Slow Food siamo stati attaccati spesso dalla stessa sinistra, che ci prendeva in giro ironizzando sul “piccolo mondo antico”».
Quindi prima o poi le campagne diventeranno tutte leghiste?
«Non penso, perché accanto allo spirito conservatore i contadini nutrono un’altra natura, più forte: lo spirito di solidarietà. Dove mangiano due mangiano pure quattro: l’accoglienza, nelle campagne, non si discute. Ecco perché penso che sia proprio da questo spirito che l’economia mondiale debba trarre ispirazione. E non è un caso che il Papa, che ha origini contadine piemontesi, lo abbia capito. Peraltro mi hanno detto che lui ha intenzione di indire un sinodo proprio sull’economia».
Però concetti come «decrescita felice» – che in qualche modo lambiscono la natura di Slow Food – sono stati presi e in certi casi trasformati in slogan discutibili, non crede?
«Sì, ma continuare a dire che questo modello economico così com’è funziona e fa bene è un errore. Dall’altra parte, è un errore pensare che la “decrescita” sia una soluzione. Questo sistema produttivo, e parlo per l’alimentare che conosco bene, è fortemente squilibrato: chi produce guadagna poco, chi consuma spende molto e in mezzo c’è chi spende poco e guadagna molto. In Messico il cinque per cento dei contadini oggi fa la fame, ed è un fatto storico. Se incentivassimo la produzione locale, se proteggessimo la biodiversità e se scegliessimo meglio che cosa consumare, forse le cose migliorerebbero. Un modello, questo, che si può applicare anche ad altri settori».
È con questo paradigma che ha conquistato anche il principe Carlo d’Inghilterra?
(ride) «Ma no, una volta lui venne a Terra Madre e ci trovammo in grande sintonia. La sera poi accettò di venire con noi in un’osteria di Verduno, qua vicino. Il suo staff era stato rigoroso: il protocollo di Sua Altezza prevede che alle dieci e mezza di sera lui stia a letto e bla bla bla. Morale: all’una di notte stavamo ancora a tavola a ridere e a mangiare. Alla fine mi disse: “Petrini, questa è stata una delle serate più belle della mia vita”. Gli risposi: «Maestà, ma che vita avete fatto finora?”».
Sembra una di quelle zingarate che facevate con quelli del Club Tenco: Conte, Guccini...
«A suo modo pure quella era politica: Amilcare Rambaldi, grande uomo di musica, il primo a concepire una rassegna canora a Sanremo, venne messo nell’ombra piano piano dalla grande industria discografica e così fondò un club dedicato alla canzone d’autore. Cioè a una nicchia di qualità, dove la musica era uno scambio di idee, cultura, amicizia. Torniamo sempre lì: il piccolo, il buono, il giusto».
Ma i cardini della sua visione sono sempre proiettati verso un orizzonte internazionale, mai chiuso e autarchico. In tempi di sovranismo militante come questi, come si sente?
«Penso che quando un Paese rinuncia al dialogo e si isola in una forma di orgoglioso sovranismo si illude di diventare più forte. In realtà la Storia insegna che questo Paese finirà dilaniato in una guerra interna tra bande».
Un altro concetto importantissimo ma diventato uno slogan è «aiutiamoli a casa loro».
«Vero, è stato distorto. L’Africa è il continente dove nei prossimi decenni si giocheranno le grandi partite internazionali. Se oggi paghiamo la Libia, vuol dire che non abbiamo fatto abbastanza per gli africani, vuol dire che alla fine dei conti adottiamo sempre lo stesso schema colonialistico. Non dobbiamo mandare derrate alimentari laggiù, ma scommettere sui giovani africani che hanno potenzialità enormi. E aiutarli a svilupparle: se abiti a trecento chilometri da Nairobi, è dura, anche se sei un genio. Purtroppo oggi manca una visione di empatia, di solidarietà con gli altri. Vedo muri, solo muri, pochissimi ponti».
Petrini, lei a giugno compirà settant’anni. Quando è stata l’ultima volta che ha pianto?
«Negli ultimi tempi piango per ogni piccolezza, sa? Ma rido anche tanto. È che mi sento amato (e con la testa indica la cucina dove la sorella Chiara è una presenza invisibile e pronta a far apparire un caffè, un biscotto, un saluto, ndr). Sono sempre stato molto amato e penso di essere stato un uomo fortunato».
Papa Francesco l’ha convertita alla fede?
«Ma no, lui ridendo dice che sono un agnostico pio e ha perfettamente ragione».
Che cosa la diverte oggi?
«Con i miei amici vado ancora a “cantare le uova”: prima di Pasqua si va per cascine a cantare e a salutare le famiglie dei contadini che in cambio ti danno le uova. Poi ci si fa una frittata e si mangia tutti insieme. Ecco come è nato Slow Food. Ecco perché mi viene da ridere quando pensano che dietro ci sia stato chissà quale business plan. Esageròma nen».