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 2019  marzo 03 Domenica calendario

Intervista a Franco Maresco

Una richiesta al suo collaboratore: “Per favore chiudi la porta? Altrimenti mi viene l’ansia. Anzi, ho già l’ansia”. Eppure siamo in uno studio di registrazione, isolato, a un paio di metri sotto l’asfalto di Palermo. “Qui sto benissimo, al riparo dal mondo”. È necessario? “Sì, perché le ho tutte: sono compulsivo, bipolare, depresso… poi in assoluto c’è la pesantezza della vita, quindi mi preoccupo”. “Non le manca nulla” (e finalmente Franco Maresco sorride).
Lui è il papà (insieme a Daniele Ciprì) di Cinico Tv, il programma che nei primi anni Novanta ha ribaltato il concetto di televisione: bianco e nero, silenzi lunghissimi, attori non professionisti, il surreale e il situazionismo come approdi mentali, canottiere e peti a corredo; polemiche e proteste a cadenza quotidiana. Poi, non soddisfatto, ha il vessillo di ultimo censurato del Paese con il film Totò che visse due volte, ritenuto blasfemo, e allora boicottato, bloccato, vessato, considerato capolavoro dai fan che stanno festeggiando il ventennale dall’uscita. “Sono una delle persone più discriminate del panorama televisivo e cinematografico. Solo a Rai Cinema mi considerano”.
Come mai?
Vivo in periferia, non lecco culi, e ancora utilizzo il telegramma per comunicare; e poi sono impulsivo, incazzoso, per fortuna rispetto a un tempo mi sono calmato.
Il telegramma è una metafora?
No, è vero. Ne ho mandato uno anche a Carlo Freccero.
E…
Ha risposto: “Dobbiamo aggirare la pericolosità del tuo nome”. Poi più sentito; io aspetto, ma tanto va avanti così da tanti anni, non ci sono spazi.
Non come all’inizio.
Allora fu una coincidenza storica, ultimo sussulto di un’Italia piena di teste pensanti.
Come avete esordito?
Tra il 1985 e il 1986 siamo apparsi in un programma di Italia 1, Isole comprese, dove selezionavano alcune eccellenze delle televisioni locali: già eravamo Cinico Tv su Televideomarket.
E un vostro pubblico.
Alcuni folli nottambuli; dopo Italia 1 sono arrivati Enrico Ghezzi e Marco Giusti con il gruppo di Blob e Fuoriorario: all’improvviso i fratelli Abate e gli altri nostri attori sono diventati personaggi non più solo di nicchia.
Improvvisamente famosi.
La nostra esistenza non è cambiata, continuava a essere di merda.
Nel senso?
Io e Daniele avevamo vite differenti, ma tutti e due con una serie di problemi non piccoli e consapevolmente abbiamo deciso di restare chiusi in un piccolo mondo, insieme ai nostri attori.
Solo voi…
Non accettavamo neanche le presentazioni.
Mai.
Neanche una, nonostante pressioni e inviti, come quelli di Maurizio Costanzo per partecipare al suo show.
Giammai.
Un reale pressing: per incoraggiarci arrivò a specificare “oh, vi prendo tutti e due sul palco”, mentre noi non solo rifiutavamo, ma appena era possibile ne parlavamo anche male e con godimento.
A che proposito.
Da ragazzino lo ammiravo, in particolare ai tempi di Bontà loro, poi ho avvertito il cinismo, il trasformismo, la capacità di dirottare il pubblico: il suo programma è stato la metafora dell’Italia, ricordava il Circo Massimo romano, una passerella dove mischiava qualunque emozione, storia, atteggiamento, moralità e presunta moralità, verso un appiattimento pericoloso del quale oggi paghiamo pegno.
Lei è un nostalgico.
È vero. Assolutamente. Abbiamo svenduto ogni forma di dignità e coerenza. Oggi è obbligatorio piacere. E non potevo stare sullo stesso palco con personaggi come Vittorio Sgarbi. (Riflette) Per il nostro racconto era necessaria una coerenza assoluta.
A ogni costo.
Ci offrirono di girare molte pubblicità, tipo quella di uno scooter, e con bei compensi sul tavolo; o alcuni videoclip, tra questi un brano di Vinicio Capossela, nostro fan, ma l’unica risposta è sempre “no”.
Cosa temevate?
Ricordo le prime recensioni di Manifesto e Unità, entrambe negative, ci accusavano di sfruttare i diversi; solo tempo dopo hanno capito la parità del gruppo e che volevamo solo raccontare un certo tipo di sud; una volta Marco Giusti scrisse: “Nel rapporto di Maresco e Ciprì con i loro attori, non è chiaro chi è prigioniero di chi”.
Simbiotici.
Una sorta di manicomio semovente, nato in un momento particolare: mi ero da poco separato, avevo un bambino piccolo e una famiglia d’origine disperata, con tanto di episodi complicati legati a malattie mentali.
E Ciprì?
Se la passava meglio, era una sorta di fratello minore, e poi aveva un negozio di fotografia, quindi una serie amplissima di materiale e strumenti a disposizione. Passavamo tutti i giorni insieme, incluse le feste comandate.
Compresi gli attori. Una comune…
Esatto, e ci palleggiavamo ossessioni, follie, fobie, depressioni, ma solo così è stato possibile creare quel microcosmo volontario.
Tutti in gioco.
Un’esperienza che può ricordare gli anni Sessanta, per questo era dolorosa l’accusa di sfruttamento.
I vostri attori come reagirono ai riflettori nazionali. 
Non gliene fotteva un cazzo.
A nessuno?
Per Marcello Miranda (l’uomo sempre in mutande), erano importanti solo le videocassette hard e le puttane; Pietro Giordano chiedeva l’elemosina, un caso meraviglioso di follia…
Cioè?
Girava in Lacoste e con scarpe da 200mila lire, proveniva da una famiglia non povera, con tanto di casa di proprietà e il servitore filippino; la sua passione era quella di imbucarsi ai matrimoni e mangiare a sbafo: una volta, scoperto, fu costretto a scappare dalla finestra di un bagno.
Personaggi ancor prima di diventarlo. 
Quando giravamo eravamo solo noi, tutti rigorosamente uomini, i sensi non dovevano distrarsi, per ottenere il giusto risultato era necessaria la sofferenza, così dopo aver battuto il ciak, andavo da Marcello Miranda e a bassa voce gli raccontavo alcune scene erotiche. Lo uccidevo psicologicamente. E all’improvviso diventava il simbolo della condizione umana. Le donne avrebbero sottratto tutto questo.
Racconta Luca Guadagnino: “Maresco mi insegnava: ‘Devi odiare le donne, feriscono, mentre devono essere usate’”.
Lui era un borghese che mangiava mais e un po’ ha travisato il mio pensiero, anche se lo ammetto: ero un teorico della misoginia.
Era…
Ai tempi di Luca avevo un negozio di videocassette che pian piano era diventato una sorta di appoggio a Basaglia.
Pure il negozio!
Un luogo dove il centro della giornata non era la videocassetta, ma una sorta di prova tecnica di Cinico Tv…
Avventori particolari.
Veniva l’Italia arrapata in cerca di prodotti pornografici, io ero un simil confessore e Vanessa Del Rio (celebre pornostar) era oggetto di discussioni approfondite; però anche Renoir e John Ford offrivano spunti ai nostri confronti, e citavamo frasi western del tipo “la migliore delle donne non vale un buon cavallo”.

Seri?
Macché, c’era ironia, ma eravamo solo uomini, un Circolo Pickwick della disperazione, e la videocassetta diventava una parentesi fastidiosa.
Perché?
Quando entrava un cliente vero, interrompeva i nostri flussi.
Ma oltre al cinema, di cosa parlavate?
Una discussione frequente partiva dalla domanda “Perché non ti ammazzi?”.
Bordate di allegria.
Un modo per esorcizzare il problema, riflettevamo sul suicidio con dell’umorismo nero; la tesi era: “Oggi arriverai a casa e troverai la bolletta, poi la moglie incazzata, la mamma che sta male, magari tuo padre si è rotto una gamba; nel calcolo delle probabilità camperai altri quarant’anni, e all’85 per cento saranno di questo genere, il 15 non andrà oltre il ‘così e così’. E dopo? quattro palate di terra e tutto è finito. Quindi: perché rimandare a domani quello che si può ottenere oggi?”.
Non fa una piega.
Funzionava.
Ha salvato qualcuno?
(Ride) Sì, e non sono convinto sia una nota di merito; in questo contesto un giorno è arrivato Luca Guadagnino che mi accusa di essere l’artefice delle sue successive scelte sessuali.
Vi sentite ancora?
Pure lui non mi risponde più, introvabile e mi dispiace.
Torniamo al porno.
Il primo collante tra me e Ciprì: Daniele prima di tornare a casa passava dal negozio e spesso era oltre l’alticcio, magari ubriaco, perché allora per vivere girava i film dei matrimoni, quindi si scolava quello che gli passava sotto il naso; allora ero veramente un grandissimo esperto di cinema hard, ed era un merito, oggi con Internet non lo è più, è cambiata la qualità.
Quanto esperto?
Sono stato preda di compulsioni erotiche, sapevo tutto, una sera, in un film francese, ho riconosciuto la voce di Emilio Cigoli, doppiatore di John Wayne e Gary Cooper.
Maresco ai tempi della scuola.
Leopardiano. E lo sono ancora.
Come andava?
Esperienza fallimentare. Tempo fa uno psicoanalista ha sentenziato che sono affetto da narcisismo, e forse allora non sopportavo i miei compagni perché volevo tutta l’attenzione su di me. Comunque mi assentavo spesso.
Direzione?
Le periferie della città, dove anni dopo avrei girato con Daniele.
A scuola come veniva giudicato?
Un essere strano, per gli insegnanti un ragazzo con qualche problema; a distanza di anni non avevano tutti i torti, però sono riuscito a conoscere personaggi interessanti
Tipo?
Francesco Mangiameli, un professore palermitano della destra più estrema, poi ucciso vicino Roma.
Ma cosa trovava in un tipo del genere?
È Dostoevskij, sono le letture notturne, mi appassionavano i Demoni, e di Mangiameli sapevo la storia di violenza, mentre in apparenza si manifestava con uno stile pretesco, parlava e citava Nietzsche ed Evola; volevo capire le sfaccettature dell’uomo.
Com’è l’uomo?
Sempre una merda dentro.
L’uomo in generale o lui?
Anni fa volevo girare un film sulla storia del mondo, il cui titolo doveva essere: “Perché l’uomo è un pezzo di merda”. E partivo da Adamo ed Eva. Chi ha letto Dostoevskij o Céline può capire.
Ha polemizzato con Marco Risi a causa di “Mary per sempre” e “Ragazzi fuori”. Risi risponde che per lei se uno non è siciliano non può parlare della Sicilia. 
Non è esattamente così, infatti considero Risi un genio rispetto all’operazione di appiattimento portata avanti da Pif, dove racconta una Palermo tutta tranquilla e infiocchettata, quando non è così.

Quindi?

Marco ha inaugurato una stagione di cinema romano, dato inizio a una lunga serie di operine, filmettini, porcheriole e serie televisive; uno sciacallaggio, con la Sicilia tramutata in pozzo senza fine, e ciò ha causato una forma di spettacolarizzazione e banalizzazione stomachevole. Conta solo l’aspetto commerciale.
Mentre prima?
Penso alle opere di Damiano Damiani: registi come lui creavano spettacolo anche dal punto di vista culturale e personale; Il giorno della civetta rispettava i canoni, aveva forza e funzione educativa, nel 1967 raccontava cos’era e cosa rappresentava la Democrazia Cristiana.
Lei comunista?
Per un periodo sono andato alla sezione di Corso Calatafimi, e chissà cosa mi immaginavo di trovare, magari persone simili o affini a Gramsci, in realtà c’era molta borghesia, militanti diversi da me e dai La Torre, che infatti era isolato dentro al Pci: lì dentro non amavano la forza comunista con le mani callose e gli eredi di quel clima oggi si chiamano Cracolici e Faraone (esponenti Pd).
“Quando suono il pianoforte poi va tutto male”. Parole sue.
Volevo diventare musicista e anni fa ho studiato con un grande didatta, però si era sviluppata una strana forma di nevrosi: ogni volta che mi applicavo, poi andava male il resto. E per anni me ne sono privato; quando ho ricominciato, di nuovo tutto male.
Ora va meglio?
No, ma per prudenza evito, non vorrei che la situazione peggiorasse. In questo caso sono un po’ codardo.
Secondo Abel Ferrara il cinema è dei gangster.
Ha ragione: a Palermo, per anni, il capo delle comparse è stato Enzo Castagna, uomo legato ai clan, e lo sapevano tutti; senza di lui era impossibile girare e nel suo mestiere era bravo. Da quando lui è finito, e i figli condannati, c’è solo piattume.

Ha mai avuto problemi con i clan?
Dopo Totò che visse due volte, film tosto, con Daniele volevamo riavvicinare il pubblico e girammo Il ritorno di Cagliostro, una commedia comica. Nel cast volevamo Enzo Castagna, nel ruolo del cardinal Sucato, lui felicissimo; una mattina mi chiama una persona, mi raggiunge e a fil di voce consiglia: “Gli amici non vogliono Enzo nel film”.
Gli amici, nel senso?
Le famiglie palermitane.
Perché?
Temevano il ridicolo, di far ridere i polli: “Non è contro di voi, ma iddu è scimunito”. Enzo addolorato, ci teneva davvero.
Stupito?
Divertito, in qualche modo avevano apprezzato il nostro lavoro.
Tra cinquant’anni come verrà ricordato?
La fortuna è che non sarò ricordato, ma credo che nessuno celebrerà nemmeno gli altri; il mio auspicio è che ci siano gli androidi, il trionfo dell’intelligenza artificiale, e quindi non terranno conto del nulla che abbiamo rappresentato nella nostra storia.

Allora perché si ostina a voler girare?
Perché conosco solo questo mestiere, e fino alla fine continuerò a tentare.