Il Sole 24 Ore, 3 marzo 2019
La Sagrada Familia finirà in 3D
La prima pietra fu posata nel 1882, l’ultima, forse, nel 2026, cento anni dopo la morte dl suo autore, l’architetto catalano Antonì Gaudì. Terzo monumento più visitato in Spagna – dopo l’Alhambra e il Prado- la Sagrada Familia a Barcellona è l’unica cattedrale ancora in costruzione da oltre un secolo. Una tenebrosa creatura di pietra, fatta rinascere nel futuro grazie a un avveniristico esperimento di bioingegneria, come i dinosauri di Jurassic Park.
Come ha spiegato alla stampa l’architetto aggiunto David Puig, si è appena avviata infatti l’ultima fase di questa ricostruzione utilizzando le più sofisticate strumentazioni di nuovi software di modellazione 3D, di programmi di realtà virtuale e di robot che tagliano la pietra al posto delle migliaia di mani di operai e artigiani con cui Gaudì, per 44 lunghi anni della sua vita, cercò di erigere quella montagna fiorita la cui «terrificante bellezza» Salvator Dalì definì «zona erogena tattile».
Ma che un edificio sacro potesse risultare erotico agli occhi surrealisti di Dalì è solo un paradosso minimo nella storia di quest’edificio che, nato dall’iniziativa dell’associazione dei devoti di San Giuseppe di erigere un «tempio espiatorio» in anni di grandi disordini sociali e politici, avrebbe finito con l’identificarsi con lo spirito stesso della città, sino a diventare addirittura l’incarnazione dell’anima della Catalogna.
Scelto il sito in un’area periferica e solitaria della nuova espansione di Barcellona, il progetto fu affidato all’architetto della diocesi, Frances de Villar, che disegnò la cattedrale in un blando stile neogotico. Ma due anni dopo la posa della prima pietra abbandonò l’impresa lasciando campo libero a un giovane e poco conosciuto architetto, il trentenne Antoni Gaudì. Forse neppure lui, allora, avrebbe immaginato di trascorrere 31 anni dei suoi 74 anni di vita in un’impresa che l’avrebbe assorbito al punto da rinunciare a ogni altro incarico privato, e a trasferirsi nelle viscere più profonde della sua cripta circondato da disegni, modelli e monconi di statue, come fosse un eremita nella grotta. Come un guardiano del tempio (e dei suoi segreti che oggi si cerca di carpire con l’aiuto delle tecnologie digitali), Gaudì procedeva in modo assolutamente sperimentale, definendo strutture e dettagli man mano che la costruzione provedeva. Agiva tattilmente, non seguendo le direttive di un piano già definito. Sapeva che il cantiere sarebbe sopravvissuto alla sua storia personale e invece di seguire un programma razionale che partisse dalla base per proseguire nella sua vertiginosa altezza, scelse di completarne solo alcune parti, tra cui i trenta metri della facciata della Natività, come per indicare un esempio e una testimonianza delle sue idee agli eventuali suoi successori.
Questi furono molti e a più riprese, perché la gigantesca opera – che cominciava a delinearsi come la montagna sacra di Barcellona – seguiva il ritmo discontinuo delle elemosine, con cui sin dall’inizio si era stabilito di finanziarla. E ancora di più, seguì le tragiche vicende che funestarono la città e il paese, tra i disastri delle dittature e delle guerre civili.
Gaudì morì il 10 giugno 1926, due giorni dopo essere stato investito da un tram sulla Gran Via, mentre si recava alla messa. Con le ciabatte ai piedi e vestito con i trasandati abiti da lavoro, era stata scambiato per un senza tetto prima di essere riconosciuto. Della sua opera immane rimaneva l’eco dell’idea, di cui solo una minima parte era in piedi. In parte si esaudiva la profezia del poeta Maragal, suo estimatore e creatore del mito della Sagrada come «miracolo della Catalogna». Egli infatti identificava il tempio con una immane rovina, frutto del lavoro della natura e dell’uomo, emblema di una nuova arte collettiva, l’arte del popolo: «Il tempio che non finisce, in perpetua costruzione, che attende incessantemente i suoi altari».
La rovina era una nascita, la costruzione una distruzione, il suo potere una redenzione. La sua conclusione, quindi, irraggiungibile. A chi gli chiedeva quando sarebbe terminata la Sagrada Familia, lo stesso Gaudì, rispondeva: «Il mio cliente non ha fretta».
Una visione troppo mistica per i nostri tempi, dove il significato religioso del tempio cede il passo al significato iconico dell’architettura. Per l’ideologia della perfezione oggi una rovina non è ammissibile: sarebbe una sfida all’onnipotenza della tecnica, alla sua pretesa di contrastare il tempo, di supplire alle lacune del passato, di sostituire l’immaginazione con l’immagine.
A causa della guerra civile gran parte dei progetti di Gaudì sono andati perduti nell’incendio del suo studio nel 1936, ad eccezione di pochi modelli in gesso, realizzati dallo stesso architetto.
Ora, un’èquipe di 24 architetti, con la collaborazione dell’università della Catalogna e di quella di Melbourne, sta tentando l’ultimo tratto della scalata al cielo: «Siamo circa al 55 per cento della realizzazione del progetto originario» ha detto l’architetto David Puig. «Otto delle dodici torri delle facciate sono terminate fino all’altezza di 140 metri. Restano da terminare le quattro torri della Facciata della Gloria, il duomo centrale dedicato a Gesù Cristo, con la croce che arriva a 170 metri, la torre della Vergine Maria e quelle dei quattro evangelisti».
Per procedere si è reso necessario ricorrere a un intenso programma di digitalizzazione dell’esistente, per forzarne i segreti delle forme irregolari e tradurle in schemi 3D da trasferire poi negli stampi di cemento. Procedimento efficace, ma assai dubbio sul piano della legittimità, tante che molte voci si sono levate (ancora una volta dopo i goffi tentativi del passato) a rivendicare il rispetto dell’autografia di Gaudì. Ma affermare oggi il valore dell’incompiuto sembra impresa impossibile, tanto più da quando la realtà virtuale è diventata il Viagra della percezione.