Il Sole 24 Ore, 3 marzo 2019
Come la censura cambiò la letteratura italiana
La storia non si fa con i «se». Oppure sì? Alla fine della lettura di Rinascimento perduto di Gigliola Fragnito, per esempio, ci si chiede quale sarebbe stato il canone letterario italiano se la censura religiosa non avesse fatto bruciare o sforbiciare novelle, poemi, satire e altre opere di svago scritte in volgare; e che cos’altro avrebbero potuto scrivere i padri della letteratura italiana se non si fossero autocensurati per timore che le loro opere finissero nell’Index librorum prohibitorum o in una delle tante liste semiufficiali compilate dagli apparati della Chiesa nella seconda metà del sedicesimo secolo.
Lo stesso titolo allude a quelle opere pubblicate in Italia tra Quattrocento e Seicento che furono distrutte o deformate dalla macchina censoria ecclesiastica. La quale agiva appunto secondo queste due modalità: requisizione o espurgazione. Libri «omnino prohibiti», e dunque da sequestrare e distruggere, erano le Facezie di Poggio Bracciolini, le Rime di Giovanni Della Casa, le liriche di Luigi Pulci, nonché l’opera omnia di Pietro Aretino, che includeva sonetti schiettamente pornografici («Fottiamci, anima mia, fottiamci presto, / poi che tutti per fotter nati siamo»). Libri «suspensi donec corrigantur» erano invece le Lettere di Anton Francesco Doni, le Maccheronee di Teofilo Folengo e soprattutto il Decameron di Giovanni Boccaccio, il cui valore linguistico-letterario era troppo rilevante perché non gli fosse concesso il beneficio dell’emendazione.
Se tuttavia considerassimo solo i tre indici romani promulgati nel Cinquecento (quello inquisitoriale del 1558, quello tridentino del 1564 e quello clementino del 1596), saremmo indotti a credere che la letteratura italiana sia stata complessivamente risparmiata dal furore della censura. Non fu così.
Innanzi tutto perché l’Indice non si limitava a elencare i testi proibiti, ma disciplinava la stampa e la lettura di intere categorie di libri, come quelli lascivi, osceni, di magia o di astrologia. Poi perché il controllo della censura era esercitato da almeno tre organi che agivano con mezzi e fini propri: il Maestro del Sacro Palazzo, la Congregazione del Sant’Ufficio (1542) e la Congregazione dell’Indice (1571). Infine perché il clima controriformistico aveva generato il timore che il germe dell’eresia potesse annidarsi in qualsiasi endecasillabo, soprattutto se divinizzava la donna e l’amore.
Si inserisce in questo quadro la complessa questione dell’autocensura. Come è possibile conoscere e valutare ciò che resta intrappolato nella penna di uno scrittore? Secondo Fragnito, analizzandone l’epistolario. Come quello di Gabriello Chiabrera, che il 17 aprile 1614 confessava all’amico Bernardo Castello di aver eliminato preventivamente dall’Amedeide ogni parola che potesse attirare l’attenzione dell’inquisitore, come «fato, fortuna, e destini, e simigliante». O come quello di Ansaldo Cebà, che il 27 agosto 1621 scriveva al cardinale Alessandro d’Este per opporsi alla sospensione della sua Reina Esther in nome della distinzione fra scrittura poetica e scrittura storica; a dimostrazione che la Chiesa era riuscita a inculcare nei letterati il senso dei confini che dovevano delimitare la loro creatività.
Il caso di Torquato Tasso è ancora più emblematico. Nel corso della stesura della Gerusalemme liberata, il poeta chiese ad alcuni letterati amici di rivedere l’opera che andava via via componendo. Invece di vertere su questioni di poetica e stile, la loro lettura si concentrò sugli aspetti più sdrucciolevoli del poema, come il rapporto tra verità e finzione, tra sacro e profano, tra passione e libero arbitrio. Dapprima incredulo di fronte alla prudente rigidità dei suoi corrispondenti, Tasso si persuase infine a modificare le parole, i versi e le stanze che avrebbero potuto «offender gli orecchi de’ pii religiosi».
Se fu impossibile frenare la diffusione di un best seller come l’Orlando furioso, peraltro pubblicato quarant’anni prima della promulgazione dell’Indice inquisitoriale, le Satire di Ludovico Ariosto furono oggetto di ripetute condanne e sospensioni. Ne derivò una proliferazione di edizioni emendate, in cui «monsignore» era mutato in «signore», «culiseo» in «colosseo», «San Pietro» in «Ser Pietro» e via dicendo in un tripudio di nonsense. Resta il fatto che a partire dal Seicento il mercato editoriale registrò non solo la scomparsa del genere satirico, ma anche il brusco declino di quello cavalleresco.
Il libro di Gigliola Fragnito è questo e molto altro: un saggio sulla politica dell’informazione perseguita dalla Chiesa in età moderna, un intreccio di storie editoriali a un secolo dalla nascita della stampa e una folta e variegata galleria di ritratti, che include quello di Paolo Costabili (inflessibile Maestro del Sacro Palazzo), quello di Barbara Sanseverino Sanvitale (social butterfly della corte estense), quello di Girolamo Giovannini da Capugnano (emendatore professionale di opere interdette) e quello di Ludovico Beccadelli (letterato petrarchista che non osò emendare il Decameron).
Con leggerezza e maestria straordinarie, l’autrice salta da una filza dell’archivio della Congregazione dell’Indice all’epistolario di un letterato, da una bolla pontificia a un’ottava ariostesca, disegnando una coreografia storiografica tanto articolata quanto ineccepibile che riafferma, contro consolidate interpretazioni, gli effetti nefasti della censura sia sulla produzione libraria sia sulla pratica della lettura. Non solo. In aperto disaccordo con le tesi di Adriano Prosperi, Peter Godman e altri studiosi, Rinascimento perduto ci riconsegna un’immagine del letterato della Controriforma antagonista al potere ecclesiastico e tutt’altro che connivente con i suoi apparati repressivi.
Frutto di lunghe, minuziose e sempre aggiornate ricerche, questo libro è un’ulteriore riprova della bravura di Gigliola Fragnito. La quale, del resto, pecca talvolta di autoreferenzialità, lastricando le note a piè di pagina di rilievi critici a saggi altrui e di continui rinvii ai propri. Nella migliore tradizione accademica italiana.