Il Sole 24 Ore, 3 marzo 2019
Il mondo fantastico di Giacomo Casanova
Icosameron: cioè, “venti giornate”. Giacomo Casanova – l’avventuriero, il seduttore, il libertino, il perpetuo fuggiasco, la spia – tenta la sfida estrema. Se uno dei padri della letteratura italiana, Giovanni Boccaccio, aveva composto una raccolta di novelle in “sole” dieci giornate, il Decameron; se Margherita di Navarra e Masuccio Salernitano non avevano osato andare oltre le sette e le cinque con l’Heptameron e il Pentameron, Casanova giungeva a venti. E non raccoglieva novelle, ma scriveva, sotto mentite spoglie e in francese, un romanzo vero e proprio: in francese, come la Storia della mia vita, perché quella lingua aveva maggior diffusione, ma facendo finta di tradurla dall’inglese. Per di più, non un romanzo borghese come quelli in voga all’epoca sua nella progredita Inghilterra, ma una narrativa utopica, fantastica, filosofica, e soprattutto «totale». «Gloria Dei est celare verbum», metteva in epigrafe dai Proverbi di “Salomone”, «et gloria regis investigare sermonem»: Gloria di Dio celare la parola, e gloria mia frugar cosa vuol dire», traduceva senza falsa modestia. Doveva narrare la storia di Edward ed Elizabeth, i due giovani inglesi al centro del libro. Ma iniziò con la riScrittura e l’interpretazione della Genesi, e narrando l’antefatto delle vicende dei due ragazzi. Dopo una lettera al Conte di Wallenstein e un breve discorso al lettore, le prime parole dell’Icosameron sono bibliche: «In principio Dio creò il cielo e la terra»: «Creò significa che Dio diede al nostro universo una forma che non aveva, o si può dire che prima non aveva forma…Tohu bohu in ebraico, Caos dicono gli antichi poeti». Per più di quaranta pagine Casanova si dedica al «Commento letterale ai primi tre capitoli del Genesi», giungendo quindi sino alla cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso Terrestre.
Vuole dare, è evidente, sfondo cosmico solenne alla storia che narra; ma, anche, l’interpretazione delle vicende bibliche (piuttosto ben informata, peraltro, con citazione dei precedenti più illustri nel campo patristico) serve a giustificare i dati fondamentali dell’invenzione fantastica. Perché il mondo nel quale Edward ed Elizabeth vengono scaraventati, al centro della Terra, è in realtà il Paradiso Terrestre, e Casanova vuole dimostrare che non c’è nulla nella Genesi che impedisca di collocare laggiù quel luogo. Il tono dell’esegesi è scanzonato e ironico, ma colpisce dove l’autore vuole: «Non ci si chiede come, ma dove Dio buttò fuori Adamo. Mosè [la Bibbia] non lo dice. Magari sbarcò in America. Conosco teologi che obietterebbero candidamente: quella no, non era ancora scoperta…Dico quello che penso: se il Paradiso Terrestre è esistito, se esiste ancora, se solo la Bibbia può darcene indicazioni, la dislocazione non potrebbe essere che nell’interno della terra».
L’enorme estensione del «Commento letterale» intriga e affascina il lettore a tal punto che corre il rischio di mancare, nell’«Introduzione», l’inizio della finzione in mediis rebus: «Verso la sponda del Canale di San Giorgio dalla parte di Monmouth, nella bella casa del conte di Bridgend, un tardo pomeriggio verso sera sedeva davanti al fuoco una coppia di vegliardi: James Alfred e sua moglie Wilhelmina. Correva il 15 febbraio (vecchio stile) del 1615. Entrarono inattesi nella stanza un uomo e una donna, giovani e belli, si fermarono un momento a fissare i due vecchi, ed esclamarono: “Ma sì, sono proprio loro!”». I due giovani sono Edward ed Elizabeth, i due vecchi i loro genitori. Per convincerli di essere proprio i loro figli, Edward comincia a raccontare la loro vita da quando, ottantuno anni prima, sarebbero «affogati nel naufragio del Wolsey inghiottito dal Maelstrand al largo della Norvegia». Ma come hanno fatto a restare giovani in ottantuno anni? E dove sono finiti dopo il “naufragio”? Come hanno fatto a “risorgerne” dopo tutto quel tempo? Le domande si affollano sulle labbra dei vecchi e di tutti coloro che subito riempiono la loro casa per ascoltare la straordinaria storia. Edward racconta per tre ore in ciascuna delle venti giornate, e le giornate corrispondono ai capitoli dell’Icosameron: alla fine dell’Introduzione, Casanova annunzia, proletticamente, che i due giovani invecchiarono rapidamente e presto morirono, trascrivendo la loro lapide sepolcrale; poi, prima della terza giornata, inserisce un’introduzione supplementare in forma di «Lettera a chi legge»: che è una disquisizione in guisa di chiacchiera sul «seme della scienza», la meraviglia, il valore della tradizione, le epigrafi. La vicenda di Edward ed Elizabeth, in estrema sintesi, li vede, nel famoso “naufragio”, affondare sino al mondo sotterraneo dei «megamicri» (“grandi-piccoli”), nel corso del tempo trasformarsi da fratelli in sposi (Casanova celebrava l’incesto come la più alta forma dell’eros) e generare prole infinita, sino a quando, compiute innumerevoli esperienze, non riemergono in superficie e si recano a Venezia, per poi raggiungere l’Inghilterra.
Il romanzo procede in realtà attraverso progressive amplificazioni, digressioni, dibattiti di autorità, dilazioni, precisazioni dotte, trovate fantastiche presentate come conclusioni perfettamente razionali. Profezie e oracoli, conversazioni filosofiche e teologiche, guerre dei giganti, prigionieri liberati, viaggi, matrimoni, donazioni, fisica e ingegneria: dentro l’Icosameron c’è di tutto, governato da una logica che stupisce ripetutamente, quasi fosse in cinque romanzi di Jules Verne messi assieme. Lo si può leggere giornata per giornata, lasciandosi irretire dalla sequenza dei particolari sorprendenti e abbandonandosi alla ricerca della loro cogenza (come nella decima, dove alla propagazione dei serpenti seguono i seminari dei giganti, l’eccesso di contante è imbrigliato dalla vigilanza, Edward diventa oculista e accetta la signoria di un feudo). Oppure lo si può aprire a caso, muovendosi poi in avanti e indietro senza, a tutta prima, capirne le ragioni e la direzione. Per esempio, quando, a pagina 340, si legge che «la religione megamicra vieta di privare della vita qualunque essere, e ha la superstizione di non cavar sangue da alcun corpo», l’indagine deve muoversi a raggiera, percorrendo il racconto a cerchi concentrici, o a spirale.
L’utopia narrativa che Casanova costruisce per mezzo di tali strumenti è davvero strabiliante e l’Icosameron raggiunge d’un balzo le altre produzioni eccellenti del Secolo dei Lumi: tra le più celebri, il Robinson Crusoe di Defoe, I viaggi di Gulliver di Swift (i megamicri hanno alcune caratteristiche in comune con gli houyhnhnm swiftiani), il Candide di Voltaire. Si tratta, naturalmente, di fantascienza. Ma rivolgendosi al Conte di Wallenstein Casanova scriveva: «chi può dire se in questo libro scrivo il vero o il falso? Si pensa d’inventare e invece è tutto vero; oppure si gabellano frottole che si credevano verità sacrosante … E voi, signor Conte, accettate il racconto a cuor leggero, salvo che vi abbia l’aria di un maledetto imbroglio: qualunque cosa contenga di buono, non pretende a verità accertata. Vedetelo come la Vita di Robinson Crusoe, quel libro inglese che non documenta i fatti, ma si legge con tanto maggior piacere come romanzo».