Il Sole 24 Ore, 3 marzo 2019
A tu per tu con Andrea Venzon, fondatore di Volt Europa
«E ora cosa facciamo?». È il 24 giugno 2016, il giorno dopo il referendum britannico su Brexit. Colombe, da Londra, è al telefono con Andrea, a Milano. Avevano immaginato di trasferirsi insieme nella capitale britannica, come centinaia di giovani, ma tutto era improvvisamente diventato più difficile. «Non volevamo uscire dall’Unione europea e pensavamo che le opportunità di vivere e lavorare in Gran Bretagna si sarebbero ridotte. Improvvisamente, mi sono reso conto che la politica poteva cambiare il destino della mia vita. Bisognava fare qualcosa».
Volt Europa, il movimento paneuropeo che conta di presentarsi in 7, o forse 8, Paesi alle prossime europee, è nato così, con una telefonata di Andrea Venzon, che oggi ha 27 anni, alla sua ragazza, Colombe Cahen-Salvador, che ne ha 24, e l’idea apparentemente un po’ avventata di affrontare un problema privato – ma diffuso – con una scelta politica, e ambiziosa: creare un movimento che si presentasse alle elezioni con lo stesso simbolo e lo stesso programma in tutti i Paesi, in modo da provare a superare gli egoismi nazionali che tanto spesso hanno frenato l’integrazione europea. A Venzon – che incontriamo a Milano, in un ristorante a pochi passi dalla sede del nostro quotidiano – e alla sua compagna francese si aggiunge presto il tedesco Damian Boeselager, oggi trentenne, che con Andrea ha frequentato un master in Public Administration alla Columbia University, a New York: il nucleo del movimento era pronto. Mancava “solo” una conferma: che l’idea avesse una chance, anche piccola, di successo.
La sorpresa arriva proprio qui, quando il 29 marzo 2017, giorno della notifica ufficiale di Brexit, viene creata una pagina Facebook e un primo, semplicissimo, sito internet. «Nel primo giorno circa 600 persone si sono iscritte, per diventare volontari»: i tre giovani hanno subito incrociato una domanda inespressa di partecipazione politica, alla quale si poteva provare davvero a dare una risposta. Si poteva quindi proseguire, quell’idea all’apparenza peregrina poteva trasformarsi in un progetto. «È tutto partito come un gruppo di amici, che sono poi diventati una vera e propria squadra», riassume Venzon.
Occorreva però prepararsi, e l’imponenza del progetto ha richiesto tempo. «In un primo tempo abbiamo fatto i compiti a casa, definito le politiche, le strategie di comunicazione, l’organizzazione. Nell’estate del 2018 siamo finalmente “usciti di casa”. A Parigi, lo scorso maggio, abbiamo varato la campagna elettorale, e abbiamo quindi lasciato le nostre occupazioni e ci siamo messi al lavoro. Abbiamo aperto un piccolo ufficio a Bruxelles, in coworking, e da lì abbiamo lanciato l’organizzazione». L’entusiastica risposta iniziale dei 600 iscritti si è presto trasformata in qualcosa di più importante. Oggi Volt Europa ha 20mila tesserati, è presente in 31 Paesi (i 28 dell’Unione più Albania, Svizzera e Norvegia). Si finanzia con la semplice raccolta fondi online («È il modello americano trasferito in Europa», spiega Venzon) mentre il lavoro è tutto svolto su base volontaria.
È già un risultato importante, per un’organizzazione nata da zero, senza grandi sostegni finanziari e logistici. Tutto merito, secondo i suoi promotori, della novità della proposta. «La rivoluzione politica che proponiamo è avere davvero una voce comune in tutta Europa. Secondo me è questo il motivo del nostro successo», spiega Venzon. Il fondatore, e oggi presidente del partito europeo, non esclude però sia all’opera tra gli aderenti al movimento, in gran parte giovani, qualcosa di più profondo, e sempre più importante. «Credo che in questo momento noi giovani viviamo un po’ di ideali: “Sto facendo qualcosa per la società, quindi io conto”. È un atteggiamento tipico del mondo del volontariato, che ora si sta però spostando verso la politica. Anche le aziende, credo, dovranno presto porsi il problema: i giovani cercano, anche nel lavoro, un significato».
La storia personale di Andrea Venzon, del resto, è emblematica di questo passaggio non solo dal privato al pubblico, e dall’economia alla politica, ma anche verso l’autenticità che può avere – quando viene tradita dal cinismo a volte imperante in quel mondo – la vita pubblica e la partecipazione politica. Laureato in Economia aziendale, Venzon consegue un master alla London Business School, e sbarca alla McKinsey, l’onnipresente – e a volte un po’ ingombrante – società di consulenza: «Mi sono trovato bene: c’è tanta pressione, tanta competizione, ma è un luogo di lavoro molto formativo. Ti spinge verso i tuoi limiti: da lì si esce più preparati ad affrontare il mondo», spiega. È la McKinsey che lo indirizza alla Columbia, per una specializzazione in Amministrazioni pubbliche, dove avverrà la “conversione”. Oggi Andrea assicura che, per fare politica, ha «tagliato tutti i ponti» con il suo ex datore di lavoro, a parte qualche ex collega che si è avvicinato di sua iniziativa a Volt.
Meno soddisfatti, almeno in un primo momento, erano i genitori, gli amici, almeno in un primo momento: la politica, in Italia, non è una scelta facile, da consigliare a un giovane preparato. Troppo cinismo, troppa corruzione: delle anime almeno, se non sempre dei portafogli. Perplessità più che comprensibili. La storia della famiglia di Venzon è del resto un classico esempio di ascensore sociale funzionante: i nonni si sono trasferiti a Milano, dal Veneto, allora povero. Il padre ha lavorato in banca, la madre ha gestito un’attività imprenditoriale. Nessuno dei due è laureato, ma i due figli sì: uno fa l’avvocato, Andrea sembrava destinato a una carriera come consulente.
Un tempo, sarebbe stata una storia piuttosto comune, non un’eccezione. Quell’ascensore sociale, però, oggi non funziona quasi più e sono i giovani della generazione di Andrea Venzon a subirne le conseguenze e a essere i più interessati a risolvere il problema e rimettere in moto la società, soprattutto quella italiana, particolarmente bloccata: «Oggi i giovani in Italia sanno che guadagneranno meno dei loro genitori. Noi non siamo un partito giovanilista, né composto soltanto da giovani. Occorre però che qualcuno si occupi di loro». È per questo che Volt Italia, nata a luglio e guidata oggi dalla presidente Federica Vinci, 25 anni – una donna, a conferma dell’importanza che il mondo femminile, un po’ «dimenticato» ha per il movimento – punta tanto sull’economia: «Il nostro messaggio, in Italia, sarà molto focalizzato su investimenti, crescita e lavoro». È una parte centrale del più ampio programma europeo di Volt, che però nel nostro Paese assume una valenza anche maggiore. «Molte misure approvate oggi puntano solo a dividere meglio la “torta”; ma la “torta” deve anche crescere; è ferma da vent’anni». Il movimento è allora scettico verso le recenti misure del governo: «Serve un sistema serio: se non c’è lavoro non ha senso destinare risorse al reddito di cittadinanza», dice della riforma-bandiera dei 5 Stelle; e non mancano critiche anche su quota 100: «Non è la riforma che ora ci serve: è utile solo per la competizione elettorale. È una questione di priorità: se non ci sono le risorse per finanziarla, meglio fare altro».
Volt punta a riformare davvero la formazione e l’istruzione. «La domanda vera è: cosa produrremo tra vent’anni. Il nostro sistema scolastico è invece fermo agli anni 50», aggiunge. Nel frattempo, è necessario rivitalizzare gli investimenti privati, che mancano all’appello:?«Neanche gli italiani – spiega Venzon – investono oggi nel loro Paese, e le cose peggiorano sempre più». Senza dimenticare gli investimenti pubblici, usando i fondi Ue: «Nel 2020 scadranno 60 miliardi: mille euro a testa. Sono fondi bloccati dalle Regioni, dove non ci sono le competenze adatte per attingervi, e dalla burocrazia europea e italiana. Riescono a usufruirne solo alcune amministrazioni particolarmente abili e le grandi aziende». Ora occorre renderli disponibili a una platea più ampia. Soprattutto per progetti sostenibili, a cui Volt tiene molto. «La sostenibilità non deve però essere vissuta come costrizione, ma come opportunità: può sviluppare i talenti e creare posti di lavoro».
L’intento di Volt non è, però, quello di sfruttare meglio il quadro europeo, ma di modificarne la struttura, a cominciare dalle pratiche quotidiane. Vuole dar vita a un «sistema federalista più integrato», in cui «alcune competenze chiave come la gestione dei confini o la sicurezza diventino sempre più europee e sempre meno in mano agli interessi nazionali». Le vicende dei migranti, che di nuovo vedono al centro l’Italia, sono un buon esempio. «Abbiamo assistito a scene vergognose: arrivano 40 persone e i ministri europei si telefonano per decidere chi prendere... Mi hanno ricordato le navi piene di rifugiati ebrei che giungevano negli Stati Uniti durante la seconda guerra mondiale, ed erano respinte». Non è un caso se il primo Congresso europeo di Volt si terrà proprio in Italia – a Roma, il 23 e il 24 marzo – nel Paese che più risente dei problemi dell’Europa e più minaccia la tenuta dell’Unione.
La prospettiva europea non impedisce a Volt di puntare a un radicamento nel territorio. In Italia potrebbe presentarsi ad alcune elezioni amministrative: a Novi Ligure, per esempio; forse a Lecce. Il lavoro di tessitura di una rete territoriale è costante. «Bisogna ricostituire il legame tra i partiti progressisti e le persone, un divario che ci ha portato a questa situazione e che non va aumentato, perché altrimenti non si risolve nulla». Volt Italia nasce su internet ma non vuole restare impigliata nella rete. «Desideriamo strutturarci a livello locale, andare nelle strade, confrontarsi ascoltare ed essere ascoltati. La gente ormai non vuole sentire solo slogan, ma anche soluzioni concrete».