La Stampa, 3 marzo 2019
Beppe Grillo non fa più ridere
Può un burattinaio prendersi sul serio? Così sul serio da non accontentarsi di manovrare dodici burattini, ma da aspirare a farlo con decine, che poi ne controllino centinaia, che ne muovano infine milioni per sradicare il più assoluto dei poteri? Il compito del giullare è divertire il re (ma di fatto canzonandolo a beneficio del pubblico) o deporre il re (e canzonare il pubblico promettendogli che un giorno tutto questo sarà suo)? Le domande affollano le platee di teatri di Roma assistendo a due spettacoli soltanto in teoria lontani nel tempo: La commedia di Gaetanaccio di Luigi Magni e Insonnia di Beppe Grillo.
Il primo va in scena dopo quarant’anni d’assenza. Fu scritto su misura per Gigi Proietti e lo ha ereditato la figlia Carlotta, insieme con Giorgio Tirabassi. Quarant’anni invecchierebbero chiunque e qualunque cosa. I riferimenti all’attualità sarebbero inserimenti con l’effetto straniante del botox. Sullo stesso palco ho assistito da poco a un Miseria e nobiltà in cui Lello Arena se ne usciva con una battuta sui migranti del tutto superflua in un copione che proclama ineludibile l’umana miseria, quale che sia il blasone, il censo o l’incarico di governo e affida l’occasione di riscatto alla nobiltà d’animo, alla generosità, alla compassione. Il salvagente che permette a un testo di sopravvivere nel tempo è la sua universalità, che consente di riconoscersi anche dopo decenni.
Gaetanaccio, dunque, è un burattinaio di strada, veramente esistito nella Roma papalina. Soffre la fame, ma insiste nella sua missione: inscenare a ogni possibile crocevia il teatrino che bastona signori e monsignori e, perfino, nostra signora morte. Un editto chiude i teatri, impedisce le rappresentazioni in ogni dove e determina «la diaspora dei guitti». Si disperdono ovunque, fuori scena. Probabilmente si rifugiano nei canali televisivi dove manovrano burattini inoffensivi (Corona, Forchielli), molto più buffi nelle sedi dove fan finta di prenderli in qualche considerazione, oppure, arrivati alla gran ribalta dei fiori, si autocensurano, temendo la cacciata dal servizio pubblico che un tempo mandava in castigo un futuro Nobel (Dario Fo) e oggi un ex calciatore (Fulvio Collovati).
Ci mandò anche Beppe Grillo, quando era giovane, forte e non soffriva di insonnia. Rivedendo la sua carriera nello speciale dedicatogli da Carlo Freccero, è abbastanza evidente quando abbia smesso di divertirsi: ai tempi in cui ce la dava lui l’America, o il Brasile, i tempi in cui girava il mondo e teneva gli occhi aperti per la curiosità, prima di tornare a casa, invecchiare e mandare a vaffa tutti. Prima di diventare il burattino numero uno (o il paziente zero come lo definisce Jacopo Iacoboni in L’esperimento) che fa la parte del burattinaio di Di Maio, che fa la parte del burattinaio di Conte: una matrioska come si deve, a ogni passaggio perde statura.
Era forte anche quando nei palazzi dello sport gremiti attaccava, unico e solo, le grandi imprese, le loro storture di bilancio, spudorate eppure non rilevate, che avrebbero portato a prevedibili disastri. Ora gli attraversa lo sguardo la nostalgia del Don Chisciotte arruolato come gran stratega nell’esercito dei conquistadores. Avrebbe dovuto esportare la «rivoluzione» in Africa, a costo di passare anni senza andare da nessuna parte, invece di portare avanti questo gioco da sofista che avanza sulle stesse caselle, ritornando a quella di partenza: il palco di un teatro. Ma si può ancora recitare da tribuno della plebe dopo essersi seduti accanto a Bruno Vespa in quel supremo teatrino che è «Porta a Porta»?
Quando la fame porta il delirio e toglie la lucidità il povero Gaetanaccio accetta un immondo baratto: una cena fatta di tutte le portate che riesce a inserire in uno scioglilingua in cambio di uno spettacolo davanti a colui che gli spettacoli ha vietato, per far divertire proprio chi ha demonizzato il divertimento. È la mossa più micidiale del diavolo quella di invitarti alla sua corte e offriti in dono l’omologazione: lo vedi, in fondo, io sono come te, perché rido delle tue battute e tu sei come me, perché mangi alla mia tavola. Tuttavia non funziona, come era destino. Lo spettacolo del burattinaio di strada nelle stanze con i marmi al posto dei selci e il soffitto affrescato invece del cielo risuona falso, si sgonfia, appassisce. Il sommo pontefice, che è anche autorità temporale, assiso sul suo scranno da cui dondola gambette che non toccano terra, ascolta e non capisce, manco sorride e con il passar del tempo si spazientisce. Il burattinaio, o parla al cuore della gente o non ha né lingua né linguaggio. Quanto le cose che dice conta da dove le dice e se ha ancora fame o la pancia piena, anche soltanto in prospettiva. È lì e non sul campo che muoiono davvero i rivoluzionari e i loro sogni: nei talk show, nelle cene placée con i posti preassegnati, tra i riflettori e le lanterne. Quando non si rende conto che il potere non fa proposte indecenti, il potere è una proposta indecente.
Nina, la donna che amava Gaetanaccio, lo abbandona quando va a fare il suo spettacolo nel tempio che contestava e voleva abbattere. Il pubblico che seguiva il Grillo di lotta appare freddo con quest’altro di governo, soprattutto se finge di essere ancora un burattinaio di strada affamato. L’ultimo, probabilmente, era Gaetanaccio che, inchinandosi per salutare il pubblico, mette le mani avanti, lanciando l’ultimo sberleffo: «Se non vi siete divertiti, con l’aria che tira siete stati comunque sempre meglio qui che là fuori».
Nelle strade italiane non camminano più né la protesta né la provocazione in forme d’arte povera, hanno imboccato quelle virtuali dove si confondono in una folla di meme e parodie delocalizzate e innocue. Per questo ci si sveglia stupiti la mattina in cui un Banksy de noantri a firma Sirante affigge su un muro anziché nella sua bacheca social una versione dei Bari di Caravaggio con i vicepremier al tavolo da gioco. Strappa un sorriso, prima che lo invitino a cena.