Che ruolo hanno avuto le lacrime nella sua vita?
«Hanno accompagnato il mio sconforto. Sono una donna vitale e determinata, ma non sempre ho retto alla pressione degli eventi».
È un’ammissione di fragilità.
«Se non si è fragili difficilmente si diventa forti. Piccola lezione appresa da bambina».
Chi gliel’ha insegnata?
«Direi la vita agra e al tempo stesso dolce. Eravamo dieci figli, fui la sola a credere nelle favole. Venivo presa in giro, perché dicevo: non sentite i campanelli? Non avrei fatto quello che poi sono riuscita a realizzare senza quelle fantasie impalpabili che chiamiamo immaginario».
Dieci figli, un padre e una madre.
«La mamma era piccola aristocrazia. Papà latinista e provveditore. Scrisse un celebre vocabolario e ci fece girare l’Italia per il suo lavoro. Sono nata a Voghera, poi Como, Salerno e infine Napoli dove mi sono laureata. Qualche amore giovanile e l’incontro della vita».
Con chi?
«Con Marcello Rumma. Sebbene giovanissimo, dirigeva a Salerno un collegio privato di proprietà della famiglia. Mi incuriosì quel suo sorriso che sconfinava nella malinconia. Ero lì per chiedere delle supplenze e fu come se ci conoscessimo da sempre. Parlammo soprattutto d’altro. Mi domandò quali fossero le mie passioni. Risposi che la sola passione era scoprire quali vere passioni avessi. Per me, disse, la sola che conta è l’arte».
L’arte era quella contemporanea.
«Soprattutto quella».
Singolare che in una città di provincia ci fosse qualcuno che si appassionava a quel mondo nascente.
«Per un luogo come Salerno poteva sembrare una stravaganza. In realtà, c’è stato un momento in cui sulla città confluirono esperienze culturali molto diverse».
Uno dei luoghi che meglio rappresentarono questa immagine fu l’università nata alla fine degli anni Sessanta.
«Fu un fenomeno incredibile. Anche perché arrivarono giovani che non trovavano posto in altre università. E fu la loro fortuna e quella di Salerno».
Chi erano?
«Ricordo bene Filiberto Menna che chiamò Achille Bonito Oliva, Edoardo Sanguineti che portò tutte le novità del Gruppo ’63. Poi c’era il gruppo dei marxisti: Lucio Colletti, Valentino Gerratana, Umberto Cerroni e Biagio De Giovanni. Anni in cui il marxismo ancora produceva cultura. E ricordo infine Aldo Masullo che Marcello chiamò a collaborare alla casa editrice che aveva fondato. Un altro punto di riferimento fondamentale fu Menna per tutto quello che riguardava l’arte. Sia lui che Angelo Trimarco svolsero un ruolo importante».
Eravate due novizi.
«Io senz’altro. Marcello dimostrò da subito un grande intuito. Cominciammo a girare per le migliori gallerie. A Roma da Sargentini e Plinio De Martiis, a Torino da Sperone e poi fu fondamentale l’incontro a Parigi con Ileana Sonnabend, la moglie di Leo Castelli».
Il vostro progetto qual era?
«Non essere dei semplici mercanti. Salerno si sarebbe prestata poco. Creammo una corte di artisti e di amici con cui discutere e lavorare. Marcello destinò l’ultima sala del collegio a una sorta di piccolo refettorio. Una tavola sempre imbandita alla quale sedevano filosofi, artisti, critici. Era un continuo dialogo. Da uno di questi incontri venne fuori l’idea di realizzare una mostra agli arsenali di Amalfi».
Di che genere?
«Tutto ruotava intorno all’Arte povera e quella di Amalfi, nell’ottobre del 1968, fu una delle prime manifestazioni. La curò Germano Celant, che l’anno prima aveva pubblicato il manifesto del movimento. Fu incredibile, per la prima volta vedemmo i migliori artisti degli anni Sessanta convergere su quello spazio».
Chi partecipò?
«Ricordo Boetti, Fabro, Kounellis, Mario e Marisa Merz, Pascali, Paolini, Pistoletto e poi artisti stranieri come Richard Long e Ger van Elk. Tra i critici, oltre a Celant, c’erano Menna, Bonito Oliva, Dorfles, Gilardi, Trimarco e Trini, e mi pare anche Renato Barilli e Alberto Boatto. Per Marcello fu una specie di consacrazione. Che arricchì l’anno dopo aprendo una casa editrice. L’idea era farne il braccio culturale dell’attività artistica».
Cosa pubblicava?
«Il primo libro fu Marchand du sel di Marcel Duchamp, poi a seguire testi di filosofia e critica».
La vostra relazione come andava?
«C’eravamo sposati nel 1967. Tenevamo al nostro legame ma anche a una certa indipendenza, forse non molto capita in una città come la Salerno di quegli anni». Indipendenza nel senso che ciascuno era libero di fare quello che voleva? «Non c’era niente di strano nel vivere la nostra storia senza ossessioni. Anche perché il rapporto era saldo».
Lui muore nel 1970.
«Bisogna fare un passo indietro rispetto a quell’evento tragico. Col tempo avevo imparato a conoscere il suo lato oscuro, il fatto che vivesse permanentemente sul confine tra la vita e la morte. Due facce che continuavano a riflettersi l’una nell’altra. Ancora oggi sento di non poter raccontare quel dramma in tutte le sue implicazioni».
Sono così profonde?
«Al punto da lasciarmi stordita. Venivo da una famiglia semplice, non era mai accaduto di dovermi confrontare con la depressione altrui. Quella di Marcello si presentò con una sofferenza che si manifestava perfino nel corpo: ingrassava e dimagriva nel giro di pochissimo tempo. Non ero preparata, ci rivolgemmo a un analista che lo tenne per un po’ in cura. Ma era come un precipitare senza un paracadute».
Che cosa accadde?
«La nostra casa era sempre aperta agli artisti e agli amici. Capitava che qualcuno dormisse da noi. Fu durante uno di questi incontri che Marcello si allontanò. Disse che aveva da sbrigare delle cose in campagna. Partì la mattina. E la sera non tornò. Pensai che fosse rimasto a dormire in campagna. Poi durante la notte sentii come un tuono e mi svegliai. Il giorno dopo appresi che Marcello si era sparato».
Quel tuono cos’era?
«Non lo so, forse una premonizione o forse pura suggestione. Lui morì intorno alle tre di notte. Quella tragedia inaspettata demolì le mie difese. Tutto quello che avevamo costruito insieme crollava. Aveva lasciato una lettera scritta a macchina, in cui mi invitava a continuare il lavoro della casa editrice. Ma non l’aveva firmata. Sparì tutto. Restai senza soldi e senza insegnamento. Tornai a casa da mia madre. Rimasi quasi un anno a letto, senza riuscire ad alzarmi».
Quando i primi segnali di guarigione?
«Quando un giorno ebbi la forza di preparare la mia piccola valigia e dire a mia madre: vado via. Lei cominciò a piangere. Non posso restare, mamma, lo capisci? Fu così che nel 1971 andai a Napoli. Trovai modo di mantenermi insegnando a Secondigliano. Una zona infestata dalla camorra. A scuola mi chiamavano " la straniera". Ma ero ancora triste e ben presto mi stancai di quella vita. Una mattina decisi che non avrei più insegnato».
Cosa avrebbe fatto?
«Quello per cui mi ero preparata con Marcello: la gallerista. Mi rivolsi a Lucio Amelio, che avevo conosciuto attraverso Marcello. Gli dissi se mi affittava due stanze sopra la sua galleria, dove allestire delle piccole mostre di grafica. Non passarono neppure dieci giorni e lui quello spazio se lo aprì per conto proprio».
Come reagì?
«Il messaggio era chiaro: in questo mondo tu non metti più piede, sei fuori gioco. Ricordo che davanti allo specchio mi dissi: hai perso un marito, un amore, quel po’ di potere che avevi, che puoi perdere ancora? A quel punto decisi che avrei aperto una vera galleria. Trovai lo spazio a Napoli, lo allestii con i pochi soldi che mi erano rimasti e scelsi l’artista più difficile: Joseph Kosuth».
Come ha fatto ad arrivare a lui?
«Avevo visto le sue opere a Parigi durante uno dei miei viaggi. Fu Leo Castelli, che aveva molta simpatia per me, ad avallare quella scelta».
Con Amelio in che rapporti restò?
«Non gli portai rancore. Era la vita: mettiti di fronte al problema e se non ce la fai a risolverlo ti arrangi o affoghi. Lucio fu un uomo intelligentissimo, ma gli sfuggiva la forza femminile».
In che senso?
«Non capiva quanto una donna potesse essere determinata. A volte, davanti ai miei successi, diventava rabbioso. Fece perfino scrivere una stroncatura di Gino De Dominicis solo perché lo esponevo. Poi capitava che ce ne andassimo a mangiare da Giovanni, sopra le mura. Un giorno ero in trattoria con un assistente ed entrò Lucio. Mi disse che aveva da dirmi una cosa importante, ma siccome non stava bene mi chiese di spostarmi a un tavolo più riparato. Con te, esordì, ho fatto il peggiore dei miei errori: dovevo proporti di lavorare insieme, saremmo stati imbattibili. Pensai che la malattia lo avesse infiacchito. Ma era sincero. Morì qualche tempo dopo di Aids. Quel giorno a tavola gli dissi: il tuo "no" di allora mi ha dato la forza per ricominciare».
Accennava a De Dominicis. Come lo ha conosciuto?
«Era già un mostro sacro difficile da raggiungere. Lo si vedeva raramente, girava di notte, sempre vestito di nero. Gli parlai per telefono e mi diede appuntamento a un’ora tardissima. Ero intimidita. Mi squadrò e con aria provocatoria disse: mi sai dire che cosa hai a che fare tu con l’arte concettuale? Risposi: abbastanza per voler fare una mostra con te. Tutti vogliono fare una mostra con De Dominicis, disse. Facciamo così, aggiunse, se sei capace di farmi esporre al museo Capodimonte, lavorerò con te. Fu quello il nostro esordio».
È stato un lungo sodalizio?
«Fino alla sua morte. Era malato di cuore, non faceva nulla per proteggersi. Affrontava il dolore come fosse una stravaganza. Placava i ricorrenti mal di denti infilandosi una moneta nella bocca. A lui, tra le tante cose, devo il rapporto con Anselm Kiefer».
Si conoscevano?
«Credo sapessero un po’ l’uno dell’altro. Avevo provato in tutti i modi di contattarlo. Niente. Gino disse: andiamo a trovarlo. Ma non ci conosce, non ci ha invitati. Andiamo lo stesso. Noleggiammo una Jaguar e partimmo per la Foresta Nera. Nessuno di noi due parlava il tedesco, solo un po’ d’inglese. Quando arrivammo Kiefer era stupito. Ma conosceva il lavoro di Gino. Il quale girava per lo studio come fosse lui il padrone. L’altro era intimidito. Comunque si piacquero. Così nacque anche la bellissima collaborazione con Kiefer».
Erano anche gli anni della Transavanguardia.
«Ero per l’Arte povera e non mi piaceva quel movimento. Con tutto l’affetto per Bonito Oliva mi sembrava che l’arte si stesse trasformando in sistema».
Non capisco.
«Non esprimo giudizi sui singoli artisti. Ma negli anni Ottanta cambiò tutto. Protagonista divenne il mercato e non più l’arte».
Intende dire che l’arte era solo un modo per fare soldi?
«Brutalmente fu così. Si impose il sistema americano: grandi investimenti, megagallerie, artisti sconosciuti che improvvisamente diventavano delle star. Ad Art Basel esposi uno striscione: " Non più mercanti d’arte ma collezionisti di nuova cultura"».
Un richiamo agli esordi salernitani?
«Sì, ma fu un errore di ingenuità. Mi tagliarono fuori da tutto. E quello che è più grave è che non avevano tutti i torti: chi ero io se non appunto una mercante d’arte?».
Fu un errore?
«Sì, ma non me ne sono mai pentita».
Avrebbe fatto altro nella vita?
«Non lo so con certezza. Ma non credo. A volte mi definisco un’artista fallita. A volte mi denigro un po’ troppo. A volte penso che è un miracolo che io sia qui dopo tutte le difficoltà che ho passato. La sola cosa che credo di saper fare bene è realizzare i miei sogni attraverso gli altri».