Robinson, 3 marzo 2019
La banalità non è banale
Visto da vicino, niente è davvero banale, niente è davvero originale. Cosa c’è di meno solenne e più dimesso del saluto “buonasera”? Eppure persino questa formula così quotidiana ha dato qualche brivido. Il 26 agosto del 1978, il cardinal Albino Luciani era stato eletto Papa e aveva appena scelto il nome di Giovanni Paolo quando si affacciò alla Loggia di San Pietro e pronunciò in latino la sua benedizione alla folla plaudente. Sembrò voler aggiungere qualcosa, ma gli tolsero il microfono perché, gli dissero, “non usava”. Non fu così meno di due mesi dopo, il 16 ottobre, quando il cardinale Karol Wojtyla si affacciò alla stessa Loggia in veste papale e con il nome di Giovanni Paolo II. Rivolse alla folla il saluto “Sia lodato Gesù Cristo”, a cui fece seguire l’apostrofe “Carissimi fratelli e sorelle” e quindi un breve discorso, divenuto celebre per la trovata del “Se mi sbaglio mi corigerete”. Forse la novità di un Papa straniero convinse i cerimonieri della necessità di rassicurare subito i fedeli sulla sua padronanza della lingua italiana. Il successore di Wojtyla, Joseph Ratzinger, scelse il nome di Benedetto XVI e il 19 aprile del 2005 esordì con “Carissimi fratelli e sorelle”. Jorge Mario Bergoglio si presentò come Francesco il 13 marzo del 2013 e disse “Buonasera”. Da una benedizione formale in latino, a una formula liturgica, a un appello discorsivo sino al più ordinario dei saluti, quello che si rivolge in ascensore al vicino incontrato rincasando: vorrà dire che con Francesco persino il papato è diventato “banale”?
Accarezzavo già l’idea di dedicare uno studio particolare alla banalità ma la decisione definitiva arrivò quando lessi un tweet che accusava appunto papa Francesco di aver augurato la pace in Terrasanta in modo assolutamente non originale e di non essersi affatto impegnato per fare meglio. Ho pensato cioè che i social network costituiscono fra le altre cose l’ambiente in cui è possibile ritenere banale il Papa: quindi l’ambiente in cui è più interessante studiare la banalità contemporanea.
Non è molto probabile che a ispirare Bergoglio sia stato il Disperato erotico stomp di Lucio Dalla, che dice che “l’impresa eccezionale, dammi retta, è essere normale": eppure i paradossi fra norma e eccezione, trasgressione e conformismo, banalità e originalità sono noti da sempre e c’è tutta una letteratura al proposito. Non solo le sintesi esilaranti che Alberto Arbasino ha sempre fatto dei tipici complimenti da recensione amica ("straordinario, come sempre!"): si può arretrare sino a Giacomo Leopardi, che annotava “Quegli uomini che i francesi chiamano originali, non solamente non sono rari, ma sono tanto comuni che sto per dire che la cosa più rara nella società è di trovare un uomo che veramente non sia, come si dice, un originale”. Il fatto è che odiare i luoghi comuni è a sua volta un luogo comune.
La parola “banalità”, nel senso in cui la usiamo oggi, ha la stessa provenienza francese e la stessa età della speculare “originalità”, due gemelle che giocano a scambiarsi di posto per confonderci le idee. Nascono entrambe con la società borghese, crescono assieme a romanticismo, giornalismo, surrealismo e avanguardie varie, rispondono al motto di Arthur Rimbaud su Il faut être absolument moderne puntualizzando, da parte loro, che “moderno” e “moda” hanno lo stesso etimo (da modo, in latino “or ora"). Non si può essere moderni senza aneliti di originalità.
Resta però il fatto che se voglio essere notato dalla vicina di casa devo salutarla in qualsiasi modo che non sia “buonasera” (a meno che non lo pronunci come in un ormai antico spot, dove” buonasera” diventava una cosa da ridere); se il Papa neoeletto dice “buonasera” è invece tutt’altro che banale. La prima cosa da capire è dunque che la banalità non è mai assoluta, come non lo è l’originalità ( e neppure, Rimbaud ci scuserà, la modernità): è sempre funzione della circostanza e anche di quella che in semiotica si chiama” enunciazione”, cioè la relazione fra chi parla e chi ascolta.
” Banale” è il contenuto del” ban”, il” bando”, la novità che l’araldo rende pubblica a tutti, nel villaggio: ciò che è comune, il sapere condiviso che istituisce una società. Perché, allora, non può essere anche “originale”, legato cioè alle fonti dell’identità comune? Il problema è che noi non diamo valore al risaputo, al già detto, alla verità attestata; perché la accettiamo la verità deve arrivarci da uno svelamento, da una smentita di una verità già nota. Il modello è:” Tutti dicono che (che Armstrong è stato sulla Luna, che è meglio vaccinare i figli, che la Terra è rotonda), ma a me non la si fa”.
L’originale diventa così l’autentico (in etimo “ciò che è fatto da sé") e l’autentico coincide con il vero; ciò che sanno tutti è invece svalutato. Per le verità che ci terrebbero a essere oggettive, di conseguenza, sono tempi duri. Oltre alla diffidenza che ispira ogni presupposto comune c’è anche il dato di fatto per cui nei social network ogni nostro intervento (ogni frase ma anche ogni singolo emoticon o like messo con un clic sull’icona del pollice levato) è inesorabilmente corredato dalle nostre impronte” digitali”, nell’altro senso dell’aggettivo; cioè da nome e immagine dell’account. Potrei essere il massimo costituzionalista italiano e mai potrei dire: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”. Quello che ne esce è sempre, inesorabilmente: “Bartezzaghi dice che: ‘l’Italia’”. L’oggettività è erosa già da principio e viene facile a quel punto confutare non l’enunciato ma l’enunciatore. Perché lo dici? Perché citi solo la prima parte dell’articolo? Perché citi l’articolo 1 e non, per esempio, il 3? Può capitare e capita sulla Costituzione, che è il fondamento della nostra vita sociale; può capitare e capita su tutto, con il corollario che non si riconosce più autorevolezza ad alcuno. Chi ha studiato una materia tutta la vita è un professorone; chi ha lavorato nel ramo è stato prezzolato; chi si oppone ai venti antivaccinisti, terrapiattisti ( e prossimamente, chi sa, asinovolisti) difende i privilegi di casta e non c’è verità” ufficiale” che non meriti qualche colpo d’ascia. Persino il Papa può risultarci banale e oggi non chiameremmo Giovanni XXIII “il Papa buono”, ma “buonista”.
Siamo dunque diventati tutti “originali”? Lo si può pensare solo non tenendo conto di ciò che Leopardi aveva già intuito e parodiato: quanto facilmente banalità e distinzione si scambino di posto e quanta forza l’ordinario eserciti sullo straordinario. Se prendiamo a esempio le polemiche filistee contro il” politicamente corretto” ( che in Italia non ha mai costituito quella cappa di conformismo poliziesco che si evoca fantasiosamente) vediamo che in tema di rapporti fra i sessi chi definisce banali e ipocriti gli scrupoli non fa che richiamare in servizio luoghi comuni anteriori e davvero insensati, come “l’uomo è cacciatore” e “la donna deve innanzitutto accudire la prole”. Il discorso pubblico ritorna così alla “natura” ( dell’uomo, della donna, del bambino, degli italiani, dei francesi, dei settentrionali, dei meridionali, degli ebrei, dei musulmani, dei migranti, dei comunisti etc.), da dove la critica massmediologica e ideologica l’aveva scacciato, a partire dal primo Roland Barthes negli anni Cinquanta e dal primo Umberto Eco nei Sessanta. Oggi chi si scaglia contro le banalità si trova a rivalutare come originali asserzioni equivalenti ai blasoni popolari, del genere” i liguri sono avari”,” l’arabo è infido”,” torinesi falsi e cortesi”,” vicentini, magna- gati”. Grattando la superficie della banalità si precipita negli abissi del sapere tradizionale.
Tra l’ammirazione obbligatoria e rituale per il capolavoro di Sergej Michajlovi? Ejzenštejn e “ La corazzata Potëmkin è una cagata pazzesca” di Fantozzi rag. Ugo il luogo comune vigente è il secondo e lo resta ancora, oggi quando certo non ha più alcun potere dissacrante. Il rimedio sarebbe allora quello di non rendere sacra né La corazzata Potëmkin né la sua stessa dissacrazione, ma chi ci darà tutta la laica saggezza che sarebbe necessaria a tanto?
Forse era meglio quando si riteneva che la gente fosse ingenua e quindi credulona e si esortava a diffidare. Ora le credenze infondate e stravaganti sono conseguenza non dell’ingenuità ma proprio di una malizia diffidente mal attrezzata. Sulla scena pubblica, neppure tanto nuova, dei social network la competenza dei sapienti (che se ne stanno accorgendo, e a proprie spese) appare nei panni della sufficienza.
Gli hashtag di oggi, gli slogan innovativi invecchieranno presto e mostreranno le corde della loro stessa banalità. Ma i paradossi del senso comune insegnano alla logica che essa non è sufficiente a scongiurarli. Quale fondamento dare a una nuova credibilità del discorso del sapere è la vera questione.
Sarà appunto banale dirlo, ma occorre innanzitutto neutralizzare l’anatema con cui bolliamo come negativa la banalità. Pensiamoci, la prossima volta che qualcuno ci dice “buonasera” pur senza essere papa.