la Repubblica, 3 marzo 2019
La moglie è il segreto di Federer
È un canto alla durata. Molto femminile. Perché anche nella quota cento di Roger c’è la spinta di una lei. Di sua moglie, Mirka. Sono gli uomini che vanno in campo, ma sono le donne che tengono accesa la miccia. Federer è classe, eleganza, forza tranquilla. Ma in quella capacità di resistere, di resuscitare, di saper cambiare (racchetta, rovescio), di capire che la vita è fatta di noi e non solo di io, c’è molto di più. Non è un caso che a quota cento e oltre siano arrivati solo due giocatori: l’americano Jimmy Connors e lo svizzero Roger Federer. Il primo ha vinto 109 titoli in carriera, l’ultimo nell’89, a trentasette anni e un mese, il secondo ha raggiunto la soglia a trentasette anni e sette mesi aggiudicandosi in poco più di un’ora il torneo di Dubai, dove è di casa e dove vive durante l’inverno, per l’ottava volta. Connors nell’arrivare a centonove ha avuto vita più facile, molti tornei erano mediocri, Federer forse non ce la farà a superarlo perché non frequenta i facili palcoscenici, ma ha raggiunto comunque un orizzonte. Tutti e due hanno una cosa in comune: la spinta femminile.
Connors è stato cresciuto da donne ribelli: dalla nonna Bertha Thompson e dalla madre Gloria che gli aveva costruito un campo da tennis dietro casa. E lo aveva anche istruito: «Non si gioca, si lotta». Infatti Jimmy mitragliava il set e faceva vedere il pugno. Connors colpiva ogni palla sempre più forte perché gli piaceva così. «Qualcuno veniva per vedermi vincere, altri per vedermi perdere, ma i più venivano per vedermi combattere». Nel ’91 festeggiò il suo trentanovesimo compleanno arrivando nei quarti a Flushing Meadows dove sconfisse Aaron Krickstein in cinque set riemergendo da 2-5.
Lui non era il Titanic, lui non affondava. In giugno a Parigi gli capitò il giovane Michael Chang al terzo turno: nel quarto set Jimmy aveva mal di schiena, crampi alle gambe, chiamò due volte il dottore, ma quando vide una coppia di spettatori camminare verso l’uscita, urlò: «Non andatevene, non è ancora finita». Vinse quel set 6-4. Nelle sue mani la racchetta diventava Excalibur, la spada di re Artù. La nonna lo incitava ad essere sempre furioso: «Se vinci puoi fare quello che ti pare». Federer non è così, in questo è l’anti-Connors: educato, elegante, ironico. Gli piace essere diretto dalla moglie o almeno non ha niente in contrario, non lo nasconde, anzi è fiero che sia Mirka a casa a portare i pantaloni.
È lei a decidere contratti e strategie, staff e resto. La firma con lo sponsor giapponese Uniqlo (per dieci anni) vale trecento milioni di dollari. Nel 2018Forbes ha messo Federer nella parte alta della classifica con guadagni per 65,5 milioni di euro. Roger ha quattro figli: due gemelle, Charlene e Myla di dieci anni, e due gemelli Leo e Lenny di cinque. Gira il mondo con loro e con una tribù di diciannove persone, comprese quattro baby sitter e un cuoco. E con Mirka, ex giocatrice, che non lo molla mai. E che gli ha dimostrato che la vita è un lungo fiume tranquillo, se lui si limita a giocare e lei a organizzare. A lui il talento, a lei la gestione. Ci possono essere pozzanghere, piccole buche, ma solo quello sono. Non segni capricciosi del destino. Un mese fa in Australia il ventenne greco Stefanos Tsitsipas eliminò Federer negli ottavi. Tanti anni in meno e otto centimetri di altezza in più. A molti sembrò un passaggio di consegne: l’alunno che supera il maestro.
Fatti più in là, papà Roger. I titoli andavano dal requiem al viale del Tramonto. Rieccolo invece trionfare Federer, senza parlare di vendetta, contro quello stesso avversario che per la prima volta da lunedì esordirà tra i primi dieci del mondo.
Un Roger non divo imbalsamato come Norma Desmond, ma spiritoso come uno che flirta con il futuro: «Sono felicissimo di aver raggiunto quota 100 qui. Non so se Stefanos era nato quando io ho vinto il mio primo titolo». Sì, Roger, non aveva ancora tre anni, ma non importa. Quello che conta è guardare avanti, salvare due punti break sul 5-4 come hai fatto tu, sbarazzarsi dell’avversario nel primo set in appena 36 minuti. E dimostrare al mondo che si può essere grande in campo se nella vita si accetta di essere in due. Da uomini, più che da macho.