la Repubblica, 3 marzo 2019
Un virus contro l’Alzheimer
Duecento sperimentazioni per trovare un farmaco anti Alzheimer sono fallite negli ultimi vent’anni. Ecco perché i ricercatori decidono oggi di sparigliare le carte, mirando direttamente alla Luna. I 15 volontari di un test nuovo e ambizioso saranno accolti alla Cornell University di New York a giugno. Anziché una medicina, come in tutti i tentativi passati, riceveranno questa volta dei geni. Particolari frammenti di Dna, si spera, potranno dare un colpo di freno all’Alzheimer agendo su una delle sue radici. I geni però non si inghiottono come pillole. Affinché entrino nelle cellule e si attivino, devono chiedere un passaggio a dei virus, che i ricercatori guidati da Ronald Crystal inietteranno con un ago sottile alla base del cervello, nel midollo spinale. Ci vorranno un paio d’anni per capire se i geni “nuovi” avranno iniziato a funzionare. La soluzione, bene che vada, non è dietro l’angolo. Ma mentre il peso dell’Alzheimer galoppa nel mondo, le cure sono ferme al palo. «Siamo in un momento di crisi. Ma è quel tipo di crisi da cui nascono nuovi paradigmi e si aprono nuove strade. Ben vengano gli approcci alternativi» dice Stefano Sensi. Il neurologo dell’università di Chieti-Pescara, in realtà, crede negli interventi sullo stile di vita, più che sul Dna: «La salute del sistema vascolare e l’attività cognitiva giocano un ruolo chiave nella protezione dei neuroni».
Dna o stile di vita, cosa ci fa ammalare? Il dilemma è annoso. Nell’Alzheimer sono stati scoperti una ventina di geni che predispongono alla malattia. Il più pericoloso si chiama ApoE e serve a produrre una proteina che scioglie i grassi nel sangue (da qui il legame con la salute dell’apparato cardiocircolatorio).Ne esistono tre versioni: ApoE2 è il “gene buono” che protegge dal rischio di Alzheimer. ApoE3 è neutro ed è il più diffuso (78% dei casi). ApoE4, il “cattivo” (15% dei casi), fa aumentare il rischio di ammalarsi. Ognuno di noi eredita una versione dalla madre e una dal padre. Quando James Watson, il Nobel che scoprì la doppia elica del Dna con Francis Crick, si sottopose alla lettura del genoma nel 2007, per paura chiese espressamente di non essere informato sui suoi due ApoE.
L’esperimento di terapia genica a New York coinvolgerà 15 volontari che hanno una doppia copia della versione numero 4. Nel loro cervello i medici inietteranno i geni della versione 2, sperando che l’azione dei “buoni” sia sufficiente a contrastare quella dei “cattivi”.
«Ogni gene può presentarsi in forme variabili» spiega Alessandro Aiuti, vicedirettore dell’Istituto San Raffaele-Telethon di Terapia Genica a Milano. ApoE è composto da quasi 300 aminoacidi (le “lettere” del Dna). «Ma basta che ne cambino 2 per passare da una versione all’altra». Aiuti e i suoi colleghi nel mondo finora sono riusciti a intervenire sul Dna per correggere malattie rare del sistema nervoso o immunitario. «È una delle prime volte che la terapia genica viene tentata per un problema così diffuso. Ma attenzione, il test per ora servirà solo a verificare che il trattamento non abbia effetti collaterali».
La situazione però nel campo dell’Alzheimer è grave e giustifica il tentativo. I 5 farmaci approvati oggi (l’ultimo 15 anni fa) frenano, ma non fanno regredire la malattia. Da trent’anni si cerca di capire il ruolo che due proteine (la beta amiloide e la tau) giocano nel cervello, formando le placche e i grovigli che soffocano i neuroni. Ma nel complicato intreccio ha finito per restare avviluppato anche ogni tentativo di cura. Nonostante oggi siano in corso un centinaio di test, le case farmaceutiche tendono a ridurre gli sforzi in un campo di ricerca che inghiotte centinaia di miliardi di euro l’anno senza far intravedere una luce. E l’Alzheimer nel frattempo costa a pazienti e famiglie mille miliardi per l’assistenza.
Ma puntare su ApoE ha davvero senso? Paolo Maria Rossini, direttore dell’area neuroscienze del Policlinico Gemelli di Roma, ragiona sui numeri. «Lo stile di vita gioca un ruolo fra due e tre volte superiore rispetto ai geni. Tant’è che non mancano i malati di demenza con due copie di ApoE2. Avere due ApoE4 fa aumentare il rischio di ammalarsi fino a 8 volte rispetto alla media».
Qualche anno fa molti malati di Alzheimer erano sottoposti all’esame del gene. «Poi ci si è accorti che sapere il risultato non cambiava molto. A meno che non convinca chi è a rischio a migliorare lo stile di vita con sport, corretta alimentazione e mantenendo attivo il cervello». E chissà se un giorno – anche se oggi non sono in molti a scommetterlo si riuscirà a modificare l’eredità ricevuta dai genitori con l’aiuto di un gene buono, che al galoppo sulla groppa di un virus arriverà in soccorso del cervello ammalato.