il Fatto Quotidiano, 2 marzo 2019
Che fine ha fatto Kevin Spacey?
Lunedì 4 marzo Kevin Spacey dovrà tenere il telefonino acceso. È quanto ha stabilito lo scorso 7 gennaio il giudice Thomas S. Barrett: l’attore due volte premio Oscar stavolta potrà fare a meno di comparire in tribunale, gli è richiesta la mera reperibilità telefonica. Niente più ressa, niente più curiosi e, allorché Spacey abbandonava l’aula e veniva inghiottito da un suv, quell’urlo solitario: “Underwood 2020!”. Lui non profferì parola: dieci minuti di udienza, poi “Cosa prova oggi Mister Spacey?” cade nel vuoto.
Imputato. In Massachusetts è alla sbarra con l’accusa di aver aggredito sessualmente un diciottenne in un bar di Nantucket: la star di House of Cards avrebbe molestato il figlio della reporter di Boston Heather Unruh, che ha sporto denuncia, il 7 luglio del 2016. Per il reato di abuso sessuale, Spacey rischia cinque anni di prigione: se giudicato colpevole, verrebbe altresì registrato quale sex offender. Sebbene intenzionato a farlo, in aula non ha dovuto dichiararsi non colpevole: la legge del Massachusetts non lo prevede.
Molestie & Snapchat. Dopodomani sapremo di più, per ora gli avvocati dell’attore hanno ottenuto che la presunta vittima non potesse modificare né cancellare i dati del proprio smartphone e cloud: in ballo c’è un video di Snapchat inviato dal ragazzo alla fidanzata, raffigura una mano che stringe una zona vestita. Secondo la Unruh, Spacey avrebbe offerto un drink dopo l’altro al giovane, che, diciottenne, si sarebbe dichiarato ventunenne, quindi ne avrebbe abbassato i pantaloni e toccato i genitali “senza consenso”.
Gli accusatori. A incolpare Spacey di abusi sessuali è una dozzina di persone: il primo nell’ottobre del 2017 è stato l’attore Anthony Rapp, secondo il quale il più celebre collega l’avrebbe molestato, all’età di 14 anni, nel proprio appartamento nel 1986. In un ormai celebre tweet del 29 ottobre 2017, Spacey si è scusato per l’accaduto, adducendo la propria ubriachezza, e ha fatto coming out, attirandosi comprensibilmente un mare di critiche: il collegamento molestia-omosessualità è insostenibile. Se a Londra sarebbero più d’uno i casi aperti che lo riguardano, lo scorso settembre il procuratore distrettuale della Contea di Los Angeles ha però rinunciato a perseguirlo per la supposta violenza ai danni di un uomo a West Hollywood nel 1992.
Damnatio memoriae. Senza aspettare il tribunale, Hollywood l’ha già dichiarato colpevole, riservandogli ostracismo e iconoclastia senza precedenti: la International Academy of Television Arts & Sciences gli ha revocato l’Emmys Founders Award; Netflix l’ha espunto dalla sesta, ultima e infine fallimentare stagione di House of Cards e ha cancellato il biopic di Gore Vidal che avrebbe dovuto interpretare; in Tutti i soldi del mondo, diretto da Ridley Scott, è stato sostituito nel ruolo del miliardario Jean Paul Getty da Christopher Plummer, ovvero il film è stato rigirato senza Spacey. Mutatis mutandis, l’unico suo titolo uscito in sala dopo lo scoppio dello scandalo è andato malissimo: Billionaire Boys Club ha fatto 1.349 dollari al botteghino americano, due milioni e mezzo in tutto il mondo. Un chiodo nella bara.
“Let me be Frank”. “Se non ho pagato per quello che ho fatto, di sicuro non pagherò per quello che non ho fatto”. L’attore americano, 60 anni il prossimo 26 luglio, è tornato a farsi sentire via social la scorsa vigilia di Natale, con il video Let me be Frank, ossia “Lasciate che io sia Frank”, l’Underwood di House of Cards, e “franco”, onesto. Sovrapponendosi al suo mefistofelico presidente e sfruttandone l’enorme seguito, ci chiama in correità – “Non mi sono mai comportato secondo le regole e questo vi è piaciuto tantissimo” – e insieme in soccorso: “Sentite la mia mancanza, non è vero?”.
Rischio suicidio. Del supporto del proprio pubblico Spacey avrebbe disperato bisogno, almeno a dar retta al fratello maggiore Randall Fowler, un 63enne abbastanza improbabile, sosia di Rod Stewart e conducente di Limousine: “Temo Frank possa suicidarsi. Ma poi ti dici ‘no, è troppo narcisista, non lo farebbe mai’”.
La lezione di Lester. Ricevendo nel 2000 la statuetta quale migliore attore protagonista per il Lester Burnham di American Beauty, Spacey aveva forse preconizzato le proprie traversie, e pure il nostro destino di orfani inconsolabili – si capisce, non dell’uomo – dell’attore straordinario e amorale che è: “Per questo mi è piaciuto Lester, perché tutti noi vediamo i suoi peggior difetti e nondimeno continuiamo ad amarlo”.