Tuttolibri, 2 marzo 2019
Diario di scrittura di Gianrico Carofiglio
Scrivere è facile. Scrivere è un piacevole passatempo. Scrivere è divertente. Quando scrivo le parole fluiscono, rapide e leggere. Quando scrivo mi sento rilassato e felice. Si scrive d’istinto. Mi metto al computer, le parole vengono da sole e alla fine la pagina/il capitolo/la storia/il racconto/il romanzo sono lì, pronti. Scrivo quando mi viene l’ispirazione. Scrivo solo quando mi viene l’ispirazione. Non mi sogno nemmeno di riscrivere perché la frase com’è uscita riflette il mio stato d’animo, il mio essere intimo e profondo.
Nessuna delle suddette affermazioni è vera.
Non per me, almeno.
Per me scrivere non è facile; non è un piacevole passatempo; non è divertente. Quando scrivo non mi sento rilassato, le parole non fluiscono affatto, le parole non vengono da sole: bisogna estrarle a fatica, una a una, sporche e impolverate, cercando di capire in quale ordine vanno disposte.
Non ho idea di cosa sia l’ispirazione e se l’avessi aspettata non sarei riuscito a finire nemmeno un libro.
Infine, riscrivere è in assoluto la parte più importante del mestiere. Non so come funzioni per gli altri, ma le mie prime stesure sono, nel migliore dei casi, impresentabili.
Il libro nella sua forma compiuta, appunto presentabile ai lettori, viene fuori dopo tre, quattro a volte anche cinque revisioni. Dopo un faticoso - a volte doloroso - lavoro di sottrazione progressiva: prima interi capitoli, poi frasi e infine parole. Tutto il superfluo che si accumula nella prima scrittura, quando non hai ancora un’idea precisa (ammesso che un’idea precisa arrivi mai) di quale sia, davvero, l’argomento di cui volevi parlare.
«Scrittore è colui al quale scrivere riesce più difficile che a qualunque altra persona» ha detto Thomas Mann. Con poche definizioni mi sono mai trovato altrettanto d’accordo.
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Scrivere un romanzo dunque è faticoso, talvolta anche pericoloso (ma di questo parleremo un’altra volta), sempre complicato.
Scrivere La versione di Fenoglio è stato un po’ più complicato del solito.
Il titolo provvisorio indicato nel contratto con l’Editore era Manuale dell’investigazione. Si trattava di un libro - sostanzialmente un saggio - sul metodo, sul significato dell’attività investigativa, sui suoi rapporti con altre forme di conoscenza: la scrittura, il sapere scientifico, il senso comune.
Nel corso dei mesi, man mano che gli appunti, gli abbozzi di capitoli e le perplessità aumentavano, il progetto ha cambiato forma e soprattutto sostanza.
Da saggio forse un po’ atipico è diventato un dialogo, quasi teatrale, con aspirazioni epistemologiche (qualunque cosa voglia dire la frase che ho appena scritto) per trasformarsi infine in una lunga conversazione romanzesca fra un ragazzo intimidito dalla vita e un vecchio investigatore che della vita ha visto quasi tutto.
È diventato un romanzo di dialogo nutrito di fatti realmente accaduti, di personaggi realmente incontrati nella mia vita precedente, quella in cui facevo il pubblico ministero e mi occupavo di indagini e processi.
Le storie si intrecciano alla riflessione sul metodo e sul labile confine che c’è, nel mondo delle indagini, fra il bene e il male, fra la verità e la menzogna.
Tutti, in qualche modo, mentono - dice il maresciallo Pietro Fenoglio. Mentono agli altri e mentono a se stessi. Mentono sulle loro azioni e mentono sui veri motivi di quelle azioni. Ci sono quelli che lo sanno, pochi, e quelli che non lo sanno, la maggioranza. L’unica differenza è questa.
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Questo romanzo, più di altri, è stato scritto attraverso la pratica, deliberata e priva di scrupoli, del furto. Furto letterario, beninteso.
A ben vedere tutti i romanzi sono fatti di furti e muta solo il livello di consapevolezza dei singoli autori sulla natura della loro vocazione.
Ne La versione di Fenoglio ci sono gli spunti presi dai libri degli altri; ci sono le storie vere, anche se trasformate per renderle non riconoscibili; ci sono le schegge di sapienza investigativa - a volte di vero e proprio genio - che ho rubato negli anni a investigatori di ogni genere, a volte inconsapevoli della profondità del loro sapere.
E poi, ci tengo a dirlo, c’è una storia che ho rubato da un romanzo di mia madre. Non voglio girarci troppo attorno e dunque la trascrivo, così com’è nel (mio) libro.
«Conosce la parola ciaraula?» disse Giulio all’improvviso, mentre Fenoglio riprendeva fiato.
«Ciaraula?»
«In siciliano significa strega. Nonna una volta mi raccontò una cosa che le era accaduta da bambina. Era estate e lei trascorreva la villeggiatura con la famiglia in una grande casa di campagna, non so esattamente dove. Un pomeriggio era andata a fare un giro per la campagna e si era imbattuta in un piccolo casolare abbandonato. Era curiosa e, anche se sapeva che poteva essere un’imprudenza, era entrata. Subito non riuscì a vedere nulla, perché veniva dalla luce accecante del sole. Poi i suoi occhi si abituarono alla penombra e si accorse che al centro di quella piccola stanza vuota, a meno di un metro da lei, c’era un lungo serpente nero, arrotolato, che la fissava. Anche lei lo fissò e rimasero a lungo così, entrambi immobili. Alla fine il serpente scivolò via e scomparve in una fessura del muro. Nonna raccontò l’episodio alla vecchia governante di casa, Concettina, e quella le disse che era stata una prova, la rivelazione che lei era una ciaraula. Solo le ciaraule possono guardare negli occhi un serpente senza averne paura.»
In qualche modo questo antico aneddoto raccontato da mia madre in un suo romanzo di memorie familiari - Quella mattina a Noto - si fa chiave di lettura del mio libro, così diverso eppure innestato sullo stesso remoto orizzonte di storie in cui si confondono la fantasia e i fatti realmente accaduti.
Mi piace pensare che il senso de La versione di Fenoglio, il criterio morale per comprenderne i protagonisti, ruoti attorno a quella scena: fissare il serpente negli occhi senza abbassare lo sguardo. Fino a quando è lui, indotto dal timore, dall’imbarazzo o anche solo dalla noia, a doversi ritirare.