Tuttolibri, 2 marzo 2019
Intervista alla scrittrice Gioconda Belli
Al duca Charles Choiseul de Praslin è crollato il mondo addosso. Lo accusano di aver ucciso la moglie ed è costretto a scappare dalla Parigi post rivoluzionaria, siamo nel 1831. In questa lunghissima fuga, organizzata da un servo, è costretto a lasciarsi alle spalle tutto, non solo la gloria, il titolo e il potere, ma anche l’identità. Gli approdi sono molti, ma l’ultimo, il Nicaragua, sarà lo scenario per la sua seconda vita. Ma le Febbri della memoria sono un approdo anche per Gioconda Belli, voce delle donne latinoamericane, che si cimenta per la prima volta in un romanzo storico, tradotto in italiano da Francesca Pe’.
Bastano poche pagine per spiazzare i suoi lettori: una scrittrice femminista, che ha raccontato storie femminili, guarda il mondo dagli occhi di un uomo dell’Ottocento.
«Sì, ha richiesto un grande sforzo, ma era necessario. Nella mia traiettoria, questo libro segna un cambiamento importante. Me lo ha chiesto il romanzo stesso, ho sentito il tono del duca mentre parlava. È stato interessante mettermi nelle vesti di un uomo di quell’epoca che osservava la complessità delle donne che lo circondavano».
Esiste un modo di scrivere maschile?
«Non ho avuto una visione femminista. Ho descritto le donne come le vedeva lui, lo facevano soffrire e spesso non le capiva. Sono stata obbligata a un tipo di narrazione diversa, più oggettiva, la prospettiva maschile del conte permetteva solo la fragilità interiore».
Il titolo ci lascia il dubbio: le memorie sono molte?
«La memoria è la materia di lavoro dello scrittore, è la miniera di cui siamo alla ricerca: una riserva d’oro per scrivere. In questo romanzo ci sono varie memorie, quella del duca che deve fuggire dalla Francia perseguitato dal suo delitto, e dall’altra la mia, una persona che viene da questa linea ereditaria, che ha ricevuto questa storia da un racconto familiare e la ricongiunge a una storia ufficiale».
Il duca è costretto a fuggire, lo possiamo considerare un migrante?
«Lui deve cominciare da zero, cambiare il nome e inventarsi un nuovo passato. È un europeo che migra in America. L’attualità mi ha spinto a raccontare questa storia: il mondo dove viviamo è pieno di persone che cambiano luogo e si devono completamente reinventare una vita. Il dilemma di oggi è: meritano una seconda opportunità o devono essere visti come invasori ed esseri umani marginali? Questo aspetto della migrazione e della rinascita mi sembra attuale».
Cosa vuol dire perdere il potere?
«Da donna mi è sembrato interessante osservare un uomo che è sempre stato ricco e potente che all’improvviso debba affrontare la vita dalla prospettiva di una persona che non ha nulla. È una lotta contro lo snaturamento. In questo processo il duca vede come l’esistenza degli esseri umani qualunque contiene aspetti che lui non aveva mai colto. Perdendo un potere che gli era stato dato in eredità, e acquisisce una capacità di osservazione, preoccuparsi per gli altri, insomma: si umanizza».
Chi sono i migranti di quell’epoca?
«L’America Latina è un miscuglio di popoli: i nativi, i conquistadores e poi i migranti del XIX secolo. È una migrazione diversa, che ha lasciato forti tracce in queste terre: gli italiani in Argentina, i giapponesi in Perù e via dicendo. In Nicaragua, dal 1850 in avanti, il governo diede concessioni sulle terre, e arrivarono tedeschi, francesi e italiani. Nella zona di Matagalpa, dove è ambientata la seconda parte del romanzo, nascono le colonie degli europei. Lì il protagonista entra nella società, si innamora e fa una famiglia. Da qui arriva una delle mie tre nonne».
Tre nonne?
«Sì, solo da adolescente mi sono resa conto che tutti ne avevano due. Perché ne avevo tre? Nella ricerca ho scoperto la storia di mio padre, che era stato cresciuto come il figlio di sua nonna e fratello di quella che in realtà era sua madre».
Lei è stata protagonista dei giorni epici della rivoluzione sandinista, cosa resta di quell’epopea?
«Assolutamente nulla. È una realtà terribile: abbiamo perso un’opportunità storica come quella di esserci liberati della dittatura di Somoza».
Come se lo spiega?
«In parte per la guerra dei Contras, voluta dagli Stati Uniti contro la rivoluzione sandinista. Ma anche per i grandi errori della stessa rivoluzione che ha avuto una deriva autoritaria».
È una deriva che ha riguardato anche altri Paesi dell’America Latina?
«Sì, è capitato a molti governi di sinistra. La caduta del Muro è stata l’occasione di reinventare il socialismo, un sistema che andava riformulato, rispondendo alla domanda di libertà e democrazia. E integrando un sistema economico che fosse più vicino alla maniera in cui vive la gente».
Il populismo dell’America Latina le ha fatto cambiare idea? Il capitalismo in fondo non è così male?
«Il capitalismo va trattato in maniera più realista, cercando di cambiare gli aspetti peggiori dei rapporti commerciali, e trovare un ibrido tra le giuste aspirazioni sociali».
Cos’è il populismo visto dall’America Latina?
«Il populismo sorto nel mio continente è un sistema deformato e corrotto, fino ad arrivare a situazioni tipo quella del Venezuela e Nicaragua, con sistemi autoritari e abusivi».
Cosa succede nel suo Nicaragua?
«Per anni abbiamo vissuto in una cosiddetta “dictablanda”, una dittatura morbida, dove Daniel Ortega era solo un dittatore potenziale. Poi in meno di un anno siamo diventati un vero regime autoritario, uno Stato di polizia».
Perché un leader rivoluzionario, come Ortega, è diventato un tiranno, scegliendo come vicepresidente sua moglie?
«è una storia lunga, ma in fondo semplice: il potere corrompe e Ortega tornato al comando nel 1990 dopo aver perso il governo, aveva compiuto una metamorfosi: per tornare doveva essere un’altra persona. In questa trasformazione ha perso tutti gli scrupoli, tutti i principi ed è arrivato a essere quello che vediamo oggi. Solo in House of Cards era successo che il presidente avesse la moglie come vice».
Il mito della sinistra occidentale per le rivoluzioni dell’America Latina è finito del tutto?
«Dopo la fine del socialismo reale, la sinistra ha cercato di togliersi di dosso quelle caratteristiche che erano state la sua perdizione. Ma invece di trovare una via originale ha cominciato a diventare sempre più simile alla destra. Così siamo davanto a una crisi d’identità e di immaginazione».
Come vede questa stagione di destra nel continente americano?
«La causa è proprio questa crisi di immaginazione della sinistra, gli esempi sono tanti: Evo Morales che cerca di restare al potere in tutti i modi, Maduro che ha portato il Venezuela agli abissi, Lula è in prigione, i Kirchner in Argentina hanno segnato un’era di corruzione. La destra quindi ha un’opportunità di presentarsi come salvatrice da un socialismo così perverso. Trump sta approfittando di questo clima, ma c’è un nuovo socialismo che sta nascendo negli Stati Uniti, a partire da Alexandra Ocasio Cortez, Bernie Sanders. È un momento chiave: vediamo se la sinistra troverà un cammino diverso, basato su libertà e democrazia. In definitiva, se sarà capace di salvarsi».