La Stampa, 2 marzo 2019
Dall’Everest al K2, la nostra Spoon River sulle vette
È in un anfratto oltre la linea della morte ed è stato fra gli incubi di chi affronta l’Everest, il terzo Polo della Terra, a 8.848 metri. Quel che resta dell’alpinista ghermito dal gelo sono gli scarponi verdi. Plastica fosforescente che resiste alle ferite del tempo. L’Himalaya dell’aria sottile s’arrampica in cielo fino a incrociare la quota delle rotte aeree ed è un’immensa «collina dello Spoon River», memoria di vite. Intrecciano un mondo verticale e impossibile, dove non c’è alcuna possibilità di vivere, soltanto di passare. E il ritorno è legato a fattori, sovente imponderabili. Fra i 200 corpi dei ghiacci dell’Everest, fra le centinaia di altri ingoiati da crepacci, abissi rocciosi , coperti per sempre da tempeste furiose, monsoni furibondi, ci sono anche italiani.
Dalla guida alpina di Courmayeur Luigino Henry svanito nella voragine dell’Annapurna III, nell’ormai lontano 1977, ad Andrea Zambaldi, nel 2014, travolto sullo Shisha Pangma con il compagno di cordata Sebastian Haag. Una valanga gigantesca li ha sorpresi sul filo dei 7.900 metri e non ha lasciato nulla di loro.
La Cina ha deciso di vietare l’Everest per pulire un «pianeta» d’alta quota devastato dall’incuria e dalla maleducazioni di orde turistiche che raggiungono i 5000 metri lungo la strada del Tibet in auto e perfino in torpedone. Ma ci saranno pure duecento alpinisti che saliranno oltre la polvere dell’altipiano, più in alto delle morene con l’intenzione di recuperare anche i resti di avventure verticali finite in sciagure. Le autorità hanno scritto avvisi e i responsabili della Cma (acronimo di lingua inglese che sta per associazione cinese della montagna) hanno inviato lettere a diciassette famiglie di persone scomparse lassù.
Una lettera è arrivata anche nel Bergamasco, alla vedova e alla giovane figlia di Pierangelo Maurizio, guida alpina e maestro di sci, spazzato via dalla parete Nord della più alta montagna del pianeta. Era in discesa con due compagni di salita. Dopo sette giorni di ricerche venne dichiarato «disperso». Sono passati 12 anni. La Cma chiede ai familiari dei diciassette dispersi che fare nel caso in cui dovessero trovare i corpi. La volontà manifestata dalla figlia di Maurizio (allora era una bimba): «Verrò a trovare papà».
Il K2 ha trattenuto il corpo di Stefano Zavka nel 2007. Scivolato via in precipizi di ricerca impossibile da uno dei punti più pericolosi della «montagna degli italiani», il Collo di bottiglia. Faceva parte della spedizione «K2 Freedom» con Daniele Nardi.
La catena himalayana ha scritto lo stesso destino per due grandi alpinisti amici, Karl Unterkircher e Walter Nones. Nel 2008 erano insieme a Simon Kehrer sul Nanga Parbat, versante Nord, il Rakhiot. Obiettivo: una via nuova sul pilastro che risale la parete nella parte mediana. Erano sul ghiacciaio, rotto e faticoso, che costringe a girare intorno a seracchi e crepacci. Sono arrivati su un abisso che potevano attraversare soltanto su un ponte di neve. E Karl ne ha saggiato la consistenza. Inghiottito. Gli amici l’hanno visto sparire per 15 metri. Poi soltanto il buio profondo.
Due anni più tardi, sul Cho Oyu, la «dea turchese», al confine tra Nepal e Cina. Walter Nones è con Giovanni Macaluso e Manuel Nocker. È salito da solo, per attrezzare un campo alto e una valanga l’ha travolto. Uomo di grande sensibilità, che soffriva per come le spedizioni trattavano portatori e Sherpa. Ha lasciato scritto, fra l’altro: « Se penso alla mia morte, la immagino in montagna e non ne ricavo un senso di paura ma di serenità, perché andare in montagna è una scelta che si fa con il cuore e significa vivere la vita in un certo modo ma anche accettare un certo modo di morire».