La Stampa, 2 marzo 2019
Tra i 4 detenuti nel carcere felice di Rapa Nui
I prigionieri sono in fila, ordinati. Alle 8 l’alba non è ancora esplosa in cielo. Comincia l’appello. Pochi secondi dopo è già terminato. Un record. Il primo di una serie, per il carcere dell’Isola di Pasqua: il più piccolo al mondo, il più remoto (le coste cilene distano 3500 chilometri, l’isola Pitcairn duemila), quello da cui nessuno è mai evaso. «Se scappassimo dove potremmo andare? Intorno c’è solo oceano», dice Michael Olivares Tuki, uno dei quattro detenuti, indicando l’orizzonte. «Ma è anche il carcere con i prigionieri più felici, ci trattano come principi», rilancia lo zio, José Manuel Tuki, 55 anni, baffo bianco, camicia a fiori e una bandana arrotolata in fronte.
Per capire il perché, bisogna avventurarsi su una stradina non lontano dall’aeroporto. Poco distante c’è l’Ahu Akivi, uno dei siti più fotografati dai turisti. Qui i moai, le emblematiche statue di pietra, sono gli unici rivolti verso il mare. L’ingresso del carcere è segnato da un tornello arrugginito, incastonato tra due muretti in pietra. Nessun controllo da passare, zero torrette di sorveglianza. Le palme e alcuni fiori rossi punteggiano i dintorni, c’è anche un campetto da calcio in terra. Non fosse per la targa che recita «Complesso penitenziario dell’Isola di Pasqua» potrebbe essere un villaggio vacanze.
Nel carcere lavorano quindici gendarmi e quattro civili. Accanto agli uffici c’è un’insegna: «Vendita artigianato». Su due lunghi tavoli sono esposte le riproduzioni dei moai di diverse dimensioni e decine di altri souvenir. A crearli sono gli stessi detenuti, che gestiscono l’atelier. Un turista chiede il prezzo di un ao, un bastone di potere con forma di remo. «Tremila pesos», risponde José Manuel. Sul tavolo ci sono un coltello, carta vetrata e una smerigliatrice. «L’hai mai visti questi strumenti in un carcere normale?», chiede sorridendo.
Quello dell’Isola di Pasqua è speciale, non c’è dubbio. «Se scoppia una rissa si risolve a pugni, senza armi. È una sorta di codice d’onore Rapa Nui», spiega il tenente Cristopher Ibañez, nel suo piccolo ufficio, scrivania, il ritratto del presidente Sebastian Piñera e poco altro. È arrivato dal continente, quattro anni fa: «Di sicuro è una prigione modello. Da Santiago è arrivato un antropologo per scrivere una tesi». Qui alcune celle non hanno sbarre, solo normali porte di legno. «Ma i detenuti devono rispettare gli orari e le normali consegne. Sarà pure una “prigione dorata”, ma resta sempre una prigione», dice il tenente. I benefici, per i detenuti, sono molti: c’è una piastra per le grigliate, un bollitore, un televisore con lettore dvd. Non è raro che guardino le partite di calcio insieme ai gendarmi. «Tra noi e i detenuti c’è un clima di grande rispetto e collaborazione», dice il tenente.
Alle 10 di mattina i detenuti iniziano a lavorare nell’atelier. Prima di pranzo arrivano alcuni turisti. Qui i souvenir possono costare fino al 30% in meno rispetto al resto dell’isola. È stato José Manuel Tuki a creare questo spazio per la riabilitazione attraverso l’arte. «Sono un re, discendo da una stirpe di guerrieri», dice ridendo. È un personaggio bizzarro, intaglia da quando ha quattro anni. «Ho l’autorizzazione del consiglio degli anziani per insegnare la mia arte. Molti ex detenuti, miei allievi, ora vendono i loro oggetti nelle bancarelle». Per questo alcuni isolani chiamano il carcere «l’università».
José Manuel è un vecchio conoscente della prigione: è entrato la prima volta nel 2001 perché non pagava gli alimenti ai quattro figli. Una volta uscito ha chiesto il permesso di poter restare per continuare a lavorare nell’atelier da uomo libero. Nel 2014, poi, è stato rinchiuso per aver colpito con una bottiglia un cugino, morto qualche settimana dopo. «L’alcol ti fa fare cose orribili, forse è stata colpa di un varua», dice incolpando gli spiriti maligni delle credenze Rapa Nui. Il nipote, Michael Olivares Tuki, è dentro da dieci anni per violenza sessuale. Era un agricoltore e ha imparato dallo zio l’arte di intagliare: «Il nostro riscatto passa attraverso questi moai di legno».
Ma non tutti, sull’isola, apprezzano il modello del carcere. «Alcuni vorrebbero un pugno più duro per persone che hanno commesso reati anche gravi. Dicono che hanno troppe comodità», spiega Jocelyn Fuentes, del canale tv Mata o Te, l’unica giornalista che vive sull’Isola di Pasqua.