Libero, 2 marzo 2019
Perché andiamo a morire in montagna
Cinque giorni fa un forte alpinista tedesco è morto precipitando dalla celebre Nord dell’Eiger. Tre giorni fa un polacco è morto scendendo dal versante francese del Monte Bianco. In qualsiasi momento, in realtà, potremmo rendere la morte in montagna un evento «notiziabile», che si tratti di escursionisti sconosciuti o di alpinisti professionisti. Poi ci sono casi che d’un tratto fanno il giro del mondo: c’è un alpinista italiano che risulta disperso da domenica sul Nanga Parbat (8126 metri, montagna pachistana tra le più difficili della Terra) e che potrebbe essere morto, anche se nessuno osa dirlo. Si chiama Daniele Nardi e con lui c’era il britannico Tom Ballard, di cui pure non si ha notizia. Prima di riproporre il dubbio sul «perché» degli esseri umani vadano a cercarsela in questo modo – quesito che l’autore di questo articolo rilancia volentieri, essendo a sua volta avvezzo all’alpinismo e al rischio – val la pena ricordare che Daniele Nardi è un alpinista atipico, anzitutto perché è di Sezze in provincia di Latina (in un mondo iper-conservatore dove ancora si fronteggiano «dolomitisti» e «occidentalisti», tutti gli altri non esistono) e poi perché Nardi è noto per una certa propensione a enfatizzare il dramma dell’avventura in montagna, spesso con l’ausilio dei social network.
SOCCORSI DIFFICILI
Nondimeno memorabile l’odissea dei soccorsi, inefficaci o condizionati dalle forti tensioni tra Pakistan e India: tutti problemi che hanno regolarmente interdetto oppure ritardato l’uso dello spazio aereo per gli elicotteri di soccorso o ancora mortificato la buona volontà di tanti alpinisti che cercavano di dare una mano. L’Ambasciatore italiano Stefano Pontecorvo ha dovuto intervenire sull’aereonautica militare pakistana, l’agenzia privata di gestione dei voli a un certo punto ha lasciato a terra gli elicotteri perché non ha ricevuto un pagamento anticipato, una spedizione russa è stata fermata dal pericolo valanghe, assieme agli elicotteri non sono potuti partire neppure dei particolari «super droni» che avrebbero dovuto sorvolare la zona dello Sperone Mummery, dove potrebbero trovarsi l’italiano e l’inglese. Insomma, è successo un po’ di tutto. Tra le poche certezze c’è che Nardi e Ballard erano arrivati al campo 4 (6.000 metri d’altezza) e che un elicottero militare ha individuato la loro tenda che però aveva attorno delle poco rassicuranti tracce di valanghe. In tutto questo non va dimenticato che parliamo di ambienti dai 5 ai 7mila metri, dove basta un lieve e ordinario peggioramento del meteo – come ieri – per far saltare ogni cosa, compreso il trasferimento dal campo base del K2 al campo base del Nanga Parbat di Alex Txikon, esperto di quella montagna visto che insieme a Simone Moro e Ali Sadpara (pure presente per le operazioni di soccorso) ha compiuto la prima salita invernale del Nanga Parbat tre anni fa, peraltro rifiutandosi di salire assieme a Nardi, a suo tempo, del quale disse di non fidarsi. Certo, non stiamo parlando della montagna dietro casa. Il Nanga Parbat è la montagna «dei tedeschi» (da loro scalata nel 1953) così come l’Everest è «degli inglesi» (benché i primi a scalarla furono un neozelandese e un nepalese) e il K2 è «degli italiani». Ma il «Nanga» è il secondo ottomila per indice di mortalità (28 per cento dei salitori) e annovera tanti record: tra questi la parete più alta del mondo (la Rupal, 4500 metri di costante pendenza) e la prima ascesa assoluta di un ottomila da parte di un solo scalatore (l’incredibile Hermann Buhl, che partì da solo dall’ultimo campo, disobbedendo agli ordini, senza usare ossigeno e assumendo anfetamine) oltre a essere la montagna in cui Reinhold Messner perse il fratello e sette dita dei piedi dopo aver salito per primo l’infinita e citata Rupal.
CONQUISTA DELL’INUTILE
Il Nanga Parbat peraltro è una montagna gigantesca: il Monte Bianco ci starebbe dentro quaranta volte, l’Everest un paio, ma soprattutto i suoi campi base sono distantissimi dalla vetta. Il campo base avanzato dell’Everest, per dire, è a 6200 metri e ci puoi arrivare in scarpe da ginnastica, ma per raggiungere la stessa quota, sul Nanga, devi aver già scalato 2200 metri di dislivello. Ancora: d’inverno, come ora, è normale che possano esserci – 35 gradi che con vento a 45 all’ora (in termini di wind chill, cioè di temperatura percepita) sfiorano i – 60. Tutte imprese che riportano a quell’alpinismo mirabilmente sintetizzato nell’espressione «conquista dell’inutile» che scrittori, filosofi o gli stessi alpinisti hanno cercato più volte di decodificare; per comprendere, cioè, che cosa spinga una persona sana di mente (se lo è) a rischiare la pelle per qualcosa in cui non esiste il presente: perché tutta la salita è una sofferenza in cui agognare la cima, poi la cima è un rincoglionimento con l’ansia di dover affrettarsi a scendere, e la discesa una corsa contro il tempo e la stanchezza durante la quale, non a caso, si registra la maggior parte degli incidenti. Eppure sono proprio le storie e i libri sui drammi e gli incidenti quelle che interessano e vendono di più. Ed è così che Reinhold Messner riempie ancor oggi i teatri.
DIMENSIONE INNATURALE
Ovviamente una versione normale sul perché tanti uomini si muovano su dei confini anormali non esiste. Emerge, dalla letteratura e dal racconto, il desiderio di rapportarsi ai propri limiti in qualcosa che non rende superuomini ma, al contrario, evidenzia tutte le proprie carenze: perché la montagna è una dimensione innaturale all’uomo, evitata per millenni, che ci fa mancare la terra sotto i piedi e che ci confronta con bisogni finalmente ricondotti all’osso: fatica, freddo, paura, fame, sete. La montagna costringe a poter contare solo su se stessi e ci dice chi siamo, oltre a rivelarci chi sono gli altri: qualsiasi postura o atteggiamento, in montagna, dura poche ore, perché la vera natura delle persone ne esce liberata nel bene e nel male. Questo sanno e insegnano i vecchi alpinisti. Il tutto nella perfetta indifferenza della natura e di montagne che non sono assassine: semplicemente non gliene frega niente, e ti restituiscono al niente che sei. Intendiamoci: per la maggior parte delle persone razionali, gli alpinisti restano fondamentalmente una massa di coglioni. Il concetto è piuttosto difficile da smentire, ma è impossibile anche spiegare che certe persone, per vivere, hanno drammaticamente bisogno di sentirsi vive. Ora non conosciamo neppure la condizione in cui si è infine calato Daniele Nardi, ma sappiamo che una delle definizioni riservate ai più grandi alpinisti di ogni tempo – tra tante altre – resta questa: i più grandi alpinisti sono quelli che sono riusciti a invecchiare.