Corriere della Sera, 2 marzo 2019
I numeri su radio e canzoni italiane/straniere
Sembra una questione da padri fondatori della Repubblica. «La musica italiana è riconosciuta come patrimonio artistico e culturale della Repubblica ed è tutelata ai sensi dell’articolo 9 della Costituzione». Così recita l’articolo 1 della proposta di legge che vorrebbe imporre alle radio di trasmettere almeno per un terzo della programmazione «opera di autori e di artisti italiani e incisa e prodotta in Italia».
Proposta etichettata come sovranista vista l’appartenenza leghista del primo firmatario, il deputato Alessandro Morelli, ma due anni fa una presa di posizione analoga dell’allora ministro dei Beni culturali Dario Franceschini non aveva creato lo stesso dibattito.
Libertà d’impresa, quella delle radio, contro tutela della cultura nazionale. I numeri raccolti da Siae e Scf (Società consortile fonografici) aiutano, le due società che raccolgono dalle radio i compensi per il diritto d’autore la prima e per i diritti dei produttori discografici e degli interpreti la seconda.
La fotografia non mostra, a livello aggregato, una minaccia alla sopravvivenza della musica tricolore.
Secondo Scf, nel 2017 le radio nazionali avrebbero tramesso il 31,98% di musica italiana, quelle locali il 32,4%. Qualche brano in più in scaletta e la percentuale immaginata dalla proposta Morelli sarebbe rispettata. I numeri vanno interpretati. Passare dieci volte di notte su una stazione minore, non vale quanto trovare spazio nella playlist di un network in ora di punta. A pesare il numero di passaggi, la fascia oraria e gli ascolti ci pensa EarOne, società che monitora 187 emittenti (l’80 per cento dell’audience) 24 ore su 24: nel 2018 fra le 50 canzoni più ascoltate ce n’erano 22 italiane. Certo, EarOne rileva solo i brani di cui le etichette chiedono un rendiconto e quindi non prende in considerazione brani vecchi ma la tendenza è quella.
Siae, che attraverso una lettera del presidente Mogol sostiene la proposta perché porterebbe «maggiori introiti», ha raccolto dati con una prospettiva storica, tenendo assieme il periodo 2010-2017.
L’emittente più virtuosa è ovviamente Radio Italia con il 95,4% di canzoni di autori italiani. A seguire i canali Rai (Radiouno e Radiodue) al 43,5% e Rtl 102.5, l’emittente più ascoltata, con un 38,8% di media. Radio 105 sarebbe praticamente in regola con il 32,4%. Quindi Rds e Kiss Kiss (27,6% e 21,9%) e, più lontane dall’obiettivo autarchico, Deejay (15,5%, ma cresciuta l’anno scorso al 24,6%), 101 (12,1%) e Virgin (4,9%).
La musica italiana sta vivendo una stagione positiva nel confronto con gli artisti internazionali. E questo grazie alla rivoluzione portata dalla trap e dall’indie. L’album più venduto del 2017 era di Ed Sheeran, ma fra i primi 100 c’erano ben 65 italiani. Saliti a 75 lo scorso anno, con il primo internazionale (sempre Sheeran) soltanto in decima posizione. E così Rtl nel 2017 era già salita al 45% di musica italiana, Deejay al 24,5 e Kiss Kiss al 29%; in controtendenza era più esterofilo rispetto alla media del periodo 2010-17 il suono di 105 (27%) e Virgin (1,3%).
Nella proposta di Morelli c’è anche un’altra quota che fa discutere, quella che riserverebbe «alle produzioni degli artisti emergenti» almeno il 10% della fetta nazionale. È la definizione di emergente che preoccupa gli operatori del settore. Se ne facessero parte quei fenomeni che esplodono all’improvviso come Mahmood dopo Sanremo la misura sarebbe poco utile perché quei progetti hanno già una loro forza, diverso sarebbe se per dare spazio a progetti minori la definizione dei criteri fosse legata alla dimensione economica delle etichette che li propongono a una lista, chissà quanto trasparente, di case discografiche.