Corriere della Sera, 2 marzo 2019
Lunga intervista a Nicola Zingaretti
Zingaretti, quando lei annunciò al Corriere la sua candidatura alla segreteria del Pd, disse che i 5 Stelle erano destinati a «disarticolarsi». Forse ci siamo.
«Esattamente. Sono un assemblamento di molte cose diverse, tenute insieme dall’antipolitica. Alla prova del governo si stanno sfarinando. Le bugie, l’incompetenza, la confusione delle opinioni non possono reggere a lungo quando hai in mano le sorti di un grande Paese. Prevedo un’accelerazione della loro crisi di consenso, ci sarà una deflagrazione. Questo ci impone nuove responsabilità nel raccogliere una parte della loro diaspora».
Non basta dire che il Pd deve recuperare parte dei suoi elettori che sono andati con i 5 Stelle. Questo è ovvio. Ora il Pd ha bisogno di interlocutori. I 5 Stelle, se rinunciassero all’alleanza con la Lega, possono esserlo?
«Intanto non è così ovvio. Solo il sottoscritto ha indicato prima degli altri le loro contraddizioni per interloquire con gli elettori delusi e che non intendono “salvinizzarsi”. Quanti sospetti strumentali mi sono caduti addosso per questa “ovvietà”! Comunque con i 5 Stelle in quanto tali non ci può essere alcuna alleanza. Piuttosto siamo alla vigilia di un generale e rapido sommovimento della geografia politica italiana. Quando la polarizzazione sarà tra un campo democratico e la risorgente destra illiberale, xenofoba e razzista, tante forze moderate, sinceramente liberali e anche nobilmente conservatrici dialogheranno con un Pd aperto, unitario e capace di andarsi a riprendere il suo popolo».
Se lei sarà il segretario, alle Europee il Pd si presenterà da solo con il suo simbolo, o insieme ad altre forze in una lista tipo «Noi siamo europei»?
«Sono stato il primo ad aderire e promuovere l’idea di una lista unitaria, per difendere e cambiare l’Europa».
Ma la Bonino e Pizzarotti non ci stanno.
«Legittimo. Ma non demordo. L’onere della ispirazione unitaria sta ancora di più sulle spalle del Pd. Se altre esperienze radicate nella società – associazioni, movimenti civici e politici, e l’opinione pubblica raccolta dall’appello di Calenda – convergeranno in uno sforzo comune, a quel punto decideremo insieme la formula più efficace».
Lei da segretario si candiderebbe alle Europee? A quali capilista pensa? Che rapporto ha con Calenda?
«No, non mi candiderò. Di nomi parliamone dopo il 3 marzo. Con Calenda ho un rapporto franco e sincero. Lo stimo. Ha un carattere impulsivo e usa molto la clava nel confronto con gli altri. Non è sempre un male. Ma in politica talvolta, per colpire meglio, serve anche il fioretto».
Riuscirebbe a fare sia il segretario Pd sia il presidente del Lazio? O si dimetterebbe?
«Non mi dimetterò. Sa che le dico? Mantenere il rapporto quotidiano con le persone che ti impone l’amministrazione è l’antidoto migliore a una politica lontana, castale, autoreferenziale. La politica che ci ha fatto perdere».
Cosa risponde a chi sostiene che con lei torna la ditta bersaniana, insomma l’ennesima riedizione del Pci-Pds-Pd?
«Il nucleo fondamentale della mia mozione è il voltare pagina e cambiare tutto. Un’intera classe dirigente deve riflettere sui propri errori. Non mi farò mai incastrare nelle frammentazioni del passato o nella logica dei vecchi involucri della sinistra. Ci vogliono aria nuova e nuovi protagonisti. Mantenendo il rispetto per le persone».
Non teme che, se non arriva al 50%, Martina e Giachetti possano allearsi contro di lei?
«Mi faccia un po’ scherzare. Giachetti si è detto sicuro di vincere; permetta a me di sperare senza ragionevoli dubbi di prendere oltre il 50%. Se poi pur avendo più voti non ci dovessi riuscire, non credo affatto alla possibilità di una convergenza tra Martina e Giachetti. Altrimenti ci sarebbe una maggioranza in minoranza e due minoranze in maggioranza. Suonerebbe male e non farebbe bene al Pd. Detto questo, è importantissimo che il segretario sia eletto dai gazebo, in maniera netta. Questo gli darebbe la forza di guidare il partito».
In tal caso includerebbe gli avversari nella gestione? Con quale ruolo?
«Assolutamente sì. Più un segretario è pluralista e inclusivo, meglio saprà decidere. Auspico un partito delle persone, non delle correnti. Nel quale si creino maggioranze e minoranze a seconda delle questioni che si devono affrontare. Basta, davvero basta con le cristallizzazioni, che spesso le divisioni le creano a prescindere dal merito».
Con lei Bersani e D’Alema tornano nel Pd?
«Loro stessi hanno detto decisamente di no».
E Renzi resta?
«Il destino di Renzi è nelle mani di Renzi. Sinceramente spero che rimanga nel Pd, come ha assicurato più volte. Le dico, però, che qualsiasi strada voglia intraprendere lo rispetterò. È un protagonista della democrazia italiana. E in ogni caso ci ritroveremo nello stesso campo, anche se in collocazioni diverse, a combattere l’inquietante destra di Salvini».
Cosa pensa del caso giudiziario che riguarda i suoi genitori?
«Nessun complotto. Altrimenti dovremmo manifestare sotto i tribunali. Ma grande rispetto e umanità per tutti gli imputati. No alla gogna mediatica, no a un’idea vendicativa della pena, no alla carcerazione preventiva se non strettamente motivata dai principi della legge. Dunque fiducia nella giustizia, sapendo che deve essere più veloce e che i singoli magistrati possono sbagliare».
Non l’ha colpita la durezza con cui i renziani hanno liquidato il reddito di cittadinanza? Non è una misura «di sinistra»?
«Il reddito di cittadinanza è stato concepito male e realizzato peggio. Fotografa la povertà, non ne rimuove le cause. Si tengono così le persone in una condizione di sudditanza e di ricatto. Ci vogliono grandi politiche di investimento, anche pubblico. Ma investire contro la povertà è giusto, avremmo dovuto farlo di più con il Rei. Sostenere che quelle poche centinaia di euro serviranno per starsene in vacanza significa non conoscere la miseria nella quale è precipitata una parte grande degli italiani. Battaglie ideologiche su principi in teoria anche giusti, le possono fare i benpensanti riscaldati dai loro rassicuranti stipendi».
Quanti elettori si aspetta ai gazebo domenica? Sotto il milione sarebbe un flop?
«Un flop? Non usiamo nel dibattito pubblico due pesi e due misure. Cinquantamila che votano in rete con poca trasparenza è definita “democrazia diretta”. Centinaia di migliaia di persone che si recano ai gazebo pagando due euro, se non superano un milione, sono una sconfitta del Pd. Comunque sono fiducioso. Il 3 marzo si vota per l’Italia e saremo più di un milione».
Il Paese è a crescita zero. Eppure il consenso al governo resta alto. Come se lo spiega?
«I dati ci dicono che l’Italia sta crollando. Calano la produzione industriale, i fatturati, le esportazioni; aumentano i disoccupati e all’orizzonte si intravedono nuove tasse. Quando gli effetti del disastro toccheranno le tasche degli italiani comincerà per il governo una crisi di consensi assai rapida. Noi dobbiamo essere pronti con una alternativa per raccogliere il malessere. Altrimenti, si potrà rafforzare ulteriormente la Lega. Siamo a un tornante della storia; il Pd, pur in difficoltà, è il solo punto di riferimento per un possibile riscatto. Scuola, università, ricerca, e un nuovo modello di sviluppo per creare lavoro e giustizia».
Lei ha detto che se cade il governo si torna al voto. Perché? Esclude un accordo Pd-5 Stelle su un programma minimo? O un governo di responsabilità?
«Sì, lo escludo. I 5 Stelle stanno implodendo. Guai a dare la stampella a Di Maio. Piuttosto dobbiamo dare un’ancora di salvezza a chi scappa da lui. Il voto sarebbe l’atto più responsabile. Spetta comunque decidere al presidente Mattarella, il vero punto di sicurezza rimasto nella democrazia italiana».
Salvini è fascista?
«Non grido al ritorno del fascismo. Salvini rappresenta piuttosto una destra nuova e pericolosa, collegata al peggio dell’Europa, che diffonde il mito della forza e il disprezzo per gli altri. Che ci vuole portare fuori dalla civiltà europea con un arretramento antropologico del Paese. Sogna l’Italietta degli egoismi, della rozzezza mentale di chi non ha alcuna curiosità per il mondo. Ma l’Italia è ed è stata un’altra cosa. È una grande potenza industriale integrata nell’Europa e nella storia ha lanciato straordinari messaggi universali».
In Italia c’è razzismo?
«Aumentano i casi di razzismo. È uno degli effetti del governo di destra. Gli italiani non sono razzisti. Ma, come si è visto con le leggi di Mussolini nel ’38, se non allertati possono adeguarsi al razzismo del potere».
Come mai non ha coinvolto suo fratello Luca nella campagna?
«Ci vogliamo un gran bene. Ma nella dimensione pubblica ognuno ama i propri impegni. C’è un coinvolgimento vero e profondo con lui e con tutta la mia famiglia grande, bella e unita, ma appunto in una dimensione familiare di cui siamo gelosi custodi».