Il Messaggero, 2 marzo 2019
La censura, ieri e oggi
I giornali francesi hanno riportato con un certo risalto una notizia apparentemente banale: che l’ultimo cinema a luci rosse di Parigi ha chiuso i battenti. In realtà c’era da stupirsi che fosse ancora in vita. Non perché la pornografia sia diminuita: al contrario, è aumentata a dismisura, ma viene veicolata da Internet che ha spiazzato e spazzato via le tradizionali forme di questo intramontabile trastullo. Ciò che invece sarebbe stato interessante commentare non era la fine di queste sale, ma il loro inizio. Perché furono autorizzate negli anni Settanta da Valery Giscard d’ Estaing che aumentò il costo dei biglietti per questi lungometraggi erotici, e ne utilizzò il ricavato per il finanziamento del cinema d’autore.
Di quel simpatico presidente oggi novantatreenne, gran signore, valoroso soldato, cattolico praticante e vero liberale, ricordiamo l’ultimo sforzo per introdurre, nella prefazione della mai scritta Costituzione Europea, il riferimento alle sue radici giudaico cristiane. Ma qui lo rievochiamo per un provvedimento apparentemente più futile, ma di grande valore civile: la definitiva abolizione della censura.
La censura è sempre esistita. Ed anche se nel gergo le viene attributo un significato vagamente moralistico, essa si è dispiegata nelle forme più varie, dalla politica all’economia e persino alla scienza: i tentativi autoritari per prevenire o reprimere le libere manifestazioni del pensiero costituiscono un elenco inesauribile, e spesso sono culminati nei roghi delle opere e anche dei loro autori.
Tuttavia, nella sua aberrazione, la censura rivela, o dovrebbe rivelare, una verità importante: che il cosiddetto mondo dei valori è estremamente incerto, volatile e soggettivo, e che niente dovrebbe indurre alla tolleranza quanto la constatazione che ciò che ieri era punito oggi è osannato. Anche il principio del bellissimo Salmo 116 ripreso da Mozart, che Veritas Domini manet in aeternum è stato vulnerato dalle modifiche del catechismo e persino dal Padre Nostro. Ma proprio perché a questo mondo non c’è nulla di definitivo, dobbiamo ammettere che, salvo i comportamenti che danneggiano gli altri, ogni persona ha il diritto di vivere come meglio gli pare, e che lo Stato non ha nessun diritto di intervenire.
IL DANNO
In effetti ogni forma di censura non è solo offensiva della libertà individuale, ma è inutile e dannosa. Coprendo le parti pudende del Giudizio Universale, Daniele da Volterra fu coperto di ridicolo con il nomignolo di Braghettone, così come i giudici che incriminarono Flaubert incrementarono le vendite del suo capolavoro. La pretesa di orientare dall’alto le scelte etiche ed estetiche degli individui, sottoponendo a tutela il loro giudizio critico e il loro indirizzo morale, è una forma di magistero arcigno che può reggere soltanto se assistito dalla vigilanza occhiuta e dalla repressione spietata. Ma anche così non può sopravvivere a lungo al dinamismo delle pulsioni individuali e collettive. Hitler fece bruciare i libri di Heine e vietò la musica di Mendelssohn, come Stalin e i suoi degni eredi spedirono nei gulag o in manicomio Solgenitsyn e decine di scienziati scomodi e scrittori dissidenti. Ma alla fine la censura alle scienze e alle arti dovette riconoscersi sconfitta. L’Index librorum prohibitorum resta, nella sua inflessibile coerenza, solo una monumentale testimonianza del passato, e le crociate naziste e comuniste, infinitamente più grossolane e cruente, ci ammoniscono sui pericoli del fanatismo associato alla violenza e alla stupidità.
E tuttavia anche oggi le nostre democrazie, affrancatesi dalla pudicizia burbera dei bigotti e dall’insolenza prevaricatrice dei dittatori, sono sottoposte a forme di censura meno aggressive ma diversamente insidiose. Esse si manifestano nella disciplina penitenziale di improvvisati pedagoghi, via via fino alla precettistica ossessionante dei salutisti e dei dietologi. Esaurite le munizioni del moralismo – perché le armi erano caricate a salve contro un bersaglio mobile la pretesa di orientare le nostre scelte si è spostata dal controllo della sessualità a quello del comportamento, ingabbiando l’individuo non più tra i rimorsi del peccato ma tra le intimazioni del conformismo sociale. All’austero divieto di legger racconti piccanti o di ammirare quadri audaci si è sostituita la campagna iniziata contro l’alcol e il fumo, e proseguita fino al sale, lo zucchero e le bibite gassate. Tutte sostanze che, assunte esageratamente, compromettono gravemente l’organismo, ma che gustate con criterio addolciscono la vita mitigandone le asperità. Il sigaro di Churchill e la pipa di Pertini rappresentano bene l’indifferenza del saggio novantenne all’edittazione penitenziale di chi vorrebbe farti vivere da malato per morire si fa per dire in buona salute.
I REGIMI
A questo punto ci domandiamo se non sia congenita, per chi tiene le redini dello Stato, la tentazione di condizionare le nostre attitudini fisiche e spirituali: in una parola di insegnarci a vivere. E purtroppo dobbiamo rispondere che sì, questa tendenza è presente, in varie forme, in tutti i regimi e in tutte le latitudini. L’Europa si è affrancata con fatica da questa subordinazione innaturale, ma l’insidia si ripresenta periodicamente in vesti più subdole e con strumenti più sofisticati. I governanti continuano infatti a inventarsi nuovi strumenti per censurare e orientare i gusti e le tendenze dei cittadini, convinti di detenere una supremazia etica che legittimi queste pretese invasive. È una battaglia perduta, perché alla fine lo spirito di ribella e si riappropria delle sue prerogative. Ma è una battaglia costosa in termini educativi, perché tende a sostituire l’improbabile coscienza collettiva alla responsabilià individuale: una prevaricazione che avvilendo la persona rallenta e compromette lo sviluppo di una civiltà.
Per questo la chiusura dell’ultimo cinema red light parigino assume un’importanza simbolica. Rappresenta un’epoca iniziata con la decisione intelligente di un grande presidente liberale: quella di ridurre l’intervento dello Stato, evitandogli di interferire in questioni di coscienza e di estetica, traendone al contempo risorse da impiegare in settori benemeriti ma meno produttivi. In una parola, seguendo l’insegnamento di Bernard Mandeville che le nostre dissolutezze non vanno combattute, ma vanno tassate. E che se i vizi privati non possono esser corretti, possono almeno esser convertiti in pubbliche utilità.