Corriere della Sera, 1 marzo 2019
Addio Grecia, i ragazzi se ne vanno
Vasilis Angelis legge nella rubrica del suo smartphone il bollettino della guerra che la Grecia sta perdendo: «Questo non c’è più, questo neppure, questo neanche però, forse, potrebbe tornare». Angelis è avvocato. Ha una laurea presa a Macerata e una patente nautica per girare in barca a vela l’Egeo. «Mio nipote Iorgos è a Londra e si occupa di ingegneria robotica, un altro sta per laurearsi ad Atene ed andrà in Germania o in Gran Bretagna. Costas, un loro compagno di scuola, è già in Massachusetts, la figlia di un nostro amico in Virginia. Se non avessi due bambini piccoli partirei anch’io. Mi ha scritto uno studio legale canadese, lì guadagnerei probabilmente cinque, dieci volte quel che incasso qui».
Le statistiche della Banca Centrale di Atene danno ragione all’empirico sondaggio di Vasilis. Negli ultimi 10 anni da un Paese di 11 milioni se n’è andato un greco su 20. Ma se si guarda solo alla fascia di età più produttiva, quella dai 20 ai 40 anni, la percentuale schizza al 35%: tre giovani ogni dieci, maschi o femmine in proporzioni uguali.
«Io sto per partire – annuncia Dafni Drossou, 24 anni di energia e chioma nera —. Prima l’Erasmus in Francia, poi un qualunque lavoro pur di restare lì. Entusiasta? Certo. Illusa? No. Sono disposta ad accettare un lavoro meno qualificato di quello che dovrei con la mia laurea in architettura, ma per il semplice fatto che sarei costretta a farlo comunque, anche se restassi in Grecia. La differenza è che nell’Europa che non è indebitata, che non è come la Grecia, spero di esser almeno pagata. Poco, ma pagata e con la possibilità di avere un futuro. Qui gli studi di architettura, ma anche i bar, vogliono solo lavoro gratuito».
Un preside di liceo a Veria, verso il confine macedone, Dimitris Tahmatzidis, non può che darle ragione: «Tantissimi miei studenti sanno di doversene andare. Chi può permetterselo fa direttamente l’università fuori. Altri puntano sui master, altri ancora emigrano dopo la laurea. L’impressione è di stare su un Titanic. Diamo ai ragazzi gli strumenti per emigrare, ma quando se ne andranno loro, chi resterà qui ad insegnare agli altri? Se si va avanti così, la Grecia affonderà senza neppure più la scialuppa della cultura per salvarsi».
Nella facoltà di Scienze politiche ed Economia dell’Università Aristotele di Salonicco, il preside Grigoris Zarotiadis è un emigrante di ritorno. Giubbotto di pelle come l’ex ministro anti austerità Yanis Varoufakis, inglese perfetto, è stato in Austria per perfezionarsi e in Gran Bretagna per lavorare, ma poi è riuscito a trovare una cattedra in patria. «Siamo ancora in una fase che chiamerei di emigrazione reversibile – spiega —. Fra qualche anno, quando chi è all’estero avrà fatto famiglia e i figli saranno a scuola, nessuno vorrà più abbandonare la vita che si è guadagnata con fatica. Se vogliamo salvare la Grecia dobbiamo farlo in fretta. La crisi economica ha bruciato un quarto del Pil e bloccato le chances di crescita. All’estero invece l’ascensore sociale per chi è qualificato funziona ancora. L’emigrazione è quindi la soluzione per i singoli. Come collettività, invece, dovremmo investire in ricerca e sviluppo, in turismo, agricoltura e manifattura di qualità, e non come abbiamo fatto sinora solo riducendo il costo del lavoro».
La Grecia è da sempre un Paese d’emigrazione. Lo scrittore Thòdoros Kallifatidis l’ha anche teorizzato: le nostre radici sono nella terra che calpestano i nostri figli, non nelle tombe dei genitori. L’ultima ondata migratoria è stata negli anni 50 e 60 e chi è rimasto in Usa, Australia, Nord Europa fa da base d’appoggio ai nipoti che vogliono partire oggi. Il problema per la Grecia, però, è che non se ne vanno più braccia, ma cervelli la cui formazione è costata parecchio alla Grecia. Gli studiosi lo chiamano «brain drain», qualcosa di più e di diverso dalla nostra solita traduzione «fuga dei cervelli». Brain drain evoca un passare al setaccio, pescare da un Paese le forze migliori e metterle al servizio del proprio sistema economico. Se da una parte riduce la disoccupazione dello Stato «drenato» (o «saccheggiato»), dall’altra toglie le energie migliori che potrebbero aiutarne la ripresa. È un fenomeno che coinvolge nell’Ue anche Portogallo, Irlanda, Spagna, Croazia, Slovenia, la stessa Italia. In Europa ci sono Paesi come Romania, Bosnia, Bulgaria che esportano manodopera a ritmi anche più alti (fino al 50%), ma il «capitale umano» di solito resta. Nell’Ue della crisi invece c’è un accentramento di competenze e creatività nelle aree più produttive a scapito delle periferie. Solo nel sistema sanitario tedesco sono ormai 35mila i medici greci, oltre tre volte quelli che si laureano in Italia ogni anno. Il risultato è negli ospedali greci senza più personale.
È facile dare la colpa del «saccheggio» all’austerità imposta ai Paesi indebitati come la Grecia dai mercati finanziari e dall’Ue. La questione dominerà la campagna elettorale tanto più che il 26 maggio qui non si voterà solo per Bruxelles, ma anche per il Parlamento di Atene e per le amministrazioni locali. I primi sondaggi prevedono uno tsunami che spazzi via la sinistra di governo a vantaggio del centro-destra di Nuova Democrazia. Per resistere, il premier Alexis Tsipras punta sui timidi segni di ripresa e su una massiccia campagna di assunzioni a tempo determinato. A dar voce alla rabbia, però, ci pensa soprattutto l’estrema destra nazionalista di Alba Dorata che rimprovera a Tsipras di aver prima svenduto gli asset nazionali e poi i suoi giovani cervelli. Antonios Gregos, deputato di Salonicco per Alba Dorata è chiaro: «l’Europa della globalizzazione, dei banchieri, dei liberali e dei socialisti ha regalato profitti giganteschi ai potentati economici e schiavizzato finanziariamente i cittadini. La gente lo ha capito e ci renderà almeno terzo partito con percentuali a due cifre».
La crisi in Grecia ha colpito soprattutto le città maggiori: Atene e Salonicco. Le isole sono restate a galla con il turismo, l’interno con l’agricoltura. La sorte peggiore è toccata ai distretti industriali come quello di Noussa a 150 chilometri da Salonicco dove la globalizzazione ha fatto il deserto e l’Europa sta cominciando a seminare. È il sindaco Nikos Koutsogiannis a raccontarlo. «Eravamo la Manchester dei Balcani, il maggior centro tessile della regione. A inizio anni 2000, la concorrenza dei prodotti asiatici ci ha messo fuori mercato. Su 30mila abitanti 5mila hanno perso il lavoro. La città si è svuotata. Oggi siamo circa 20mila e stiamo tentando di rinascere. Con i fondi per lo sviluppo Ue stiamo riconvertendo le fabbriche in centri per congressi, arte e creatività. Vorremmo arrivare a fare di Noussa un ambiente moderno e piacevole capace di attrarre la diaspora internazionale. Con la loro professionalità, sfruttando anche il lavoro a distanza, potrebbero far ripartire il Paese».
Evi Zygoulianou, 32 anni, è una di quelli scappati. Laureata in pedagogia, master sui disturbi dell’apprendimento, vive e lavora a Monaco. Una, due volte la settimana parla in Skype con genitori e fratello rimasti in Grecia. La sua voce arriva in una casa piena di icone ortodosse. «Guadagno bene, ma se potessi tornerei indietro. In Germania mi sento comunque straniera: mi piacciono cibi diversi, gesticolo in modo diverso, tratto le persone diversamente dai tedeschi».
Ad Atene anche lo scrittore Petros Markaris, il padre dell’ispettore Charitos, è tormentato dalla nuova diaspora. «Capisco che molti possano incolpare l’Europa perché questa sembra dire ai disoccupati quel che un proverbio greco dice al demonio: “Vattene via da me, va dal mio vicino». Per me però, il problema vero è la distruzione della classe media, unica guardiana della democrazia. La crescita dell’estrema destra e del razzismo non è casuale. Se vogliamo uscire dalla crisi ancora in democrazia, c’è qualcosa di meglio dell’Europa?».