Una nuova medicina
È partendo da queste considerazioni — illustrate da Giuseppe Costa, epidemiologo dell’università di Torino nello studio "40 anni di salute a Torino" — che è nata l’idea di un nuovo approccio per curare le malattie croniche con la geografia urbana.
L’obiettivo è di incrociare i dati statistici e demografici della popolazione con lo suo stato di salute dei cittadini per sviluppare soluzioni caratterizzate quartiere per quartiere, in particolare per quelli più difficili, grazie alla collaborazione di Asl, Comune, Atc (che gestisce le case popolari) e una serie di "sentinelle" individuate tra farmacisti, medici di base e attivisti di varie associazioni, che tengano conto delle caratteristiche della popolazione e dei servizi offerti.
«Paradossalmente la prevenzione e le campagne di sensibilizzazione accentuano le diseguaglianze anziché risolverle — spiega Giuseppe Costa — perché chiedono spesso alle persone uno sforzo individuale per mangiare meglio e per cambiare le proprie abitudini: appello a cui sono più recettivi i ceti più istruiti e abbienti, mentre sono necessarie politiche mirate per colmare le differenze». In particolare la sfida è di intercettare nei quartieri più difficili i malati e aiutarli a curarsi in modo adeguato prima che arrivino al pronto soccorso, così da ridurre la mortalità e anche il costo personale ma anche sociale delle cure per patologie reumatiche, di insufficienza cardiaca, respiratoria o renale, demenza senile o diabete.
Il tram numero 3
La scelta di Torino come avamposto per questo nuovo modello di sanità deriva dal fatto che qui che è stato sviluppato il metodo che unisce i dati degli istituti di statistica con quelli provenienti dalle aziende sanitarie, nel rispetto della privacy, permettendo di fare ricerca non su un campione di cittadini, ma sulla totalità della popolazione e sulla molteplicità di cause di morte, dalle malattie agli incidenti, dalla violenza all’inquinamento.
Suggestiva è l’immagine che Costa ha trovato per esemplificare il divario tra i quartieri quando ha scoperto che i dati della sua ricerca erano sovrapponibili con il tram della linea 3 (e di alcune fermate del 6) che, partendo da piazza Hermada, sull’elegante collina torinese, attraversa il quartiere studentesco di Vanchiglia, segue corso Regina Margherita fino al melting pot di etnie che è Porta Palazzo, lambisce altri palazzi residenziali per poi infilarsi nella periferia delle Vallette. Tre quarti d’ora e 26 fermate per un viaggio in cui ogni chilometro chi abita lungo le strade vede erodere di 5 mesi l’aspettativa di vita, fino a un divario di quasi 4 anni tra i due capolinea. Un risultato frutto della separazione, ma non sempre il mix sociale è la risposta: «Persone con minori strumenti per affrontare la vita in un ambiente più elevato potrebbero vivere uno stato di frustrazione e di esclusione non salutare», afferma Costa.
Torino, Italia, Europa
Se quattro anni di vita tra centro e periferia sembrano tanti, ieri alla tre giorni del welfare che si è aperta a Bologna l’epidemiologo Michael Marmot ha citato il caso londinese, in cui tra un quartiere e l’altro il divario sulla speranza di vita è anche di 15 anni. Ma nel contesto italiano la fotografia sullo stato di salute dei torinesi non è molto diversa da quella di altre grandi città. Anche i dati nazionali dell’Istat, infatti, confermano il nesso tra istruzione e benessere, con uno scarto di sette anni tra la vita media di un maschio con un basso livello scolastico (79 anni) e quella di una donna laureata (86). Così come ovunque in Italia il denaro è un elemento importante quando ci si ammala, come conferma un’altra ricerca coordinata dal napoletano Francesco Perrone, che mostra come i pazienti oncologici con difficoltà economiche abbiano un rischio di morte del 20 per cento più alto e reagiscano peggio alla chemioterapia.