1 marzo 2019
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Biografia di Michail Gorbačëv
Michail Gorbačëv (Michail Sergeevič G.), nato a Privolnoe (Stavropol, Russia) il 2 marzo 1931 (88 anni). Politico. Ex segretario generale del Partito comunista dell’Unione Sovietica (1985-1991) e unico presidente dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (1990-1991). Premio Nobel per la pace nel 1990. «La sua forza rese possibile ogni cosa. Ma le sue debolezze minarono l’intero progetto» (William Taubman). «A guardare le cose da una prospettiva più ampia, partendo da come si è venuto delineando il destino che mi ha voluto non solo attore di una delle più importanti svolte della storia, ma anche protagonista e artefice di un grande processo di trasformazione del Paese, posso dire di essere stato fortunato. Ho bussato alle porte della storia e le porte si sono aperte, per me e per coloro per i quali ho ingaggiato la mia battaglia» • Nato in una famiglia contadina, alla nascita fu segretamente battezzato dalla madre, devota cristiana ortodossa. «Pantelei Efimovic, il nonno materno, fu il primo a influire su Mikhail, con le letture che gli consigliava, con lo stimolo costante a studiare, con il suo passato di organizzatore delle prime cooperative agricole post-rivoluzionarie. Ma l’esempio più importante che gli diede ha a che fare con una tragedia collettiva: lo stermino dei kulaki, gli agricoltori più abbienti, i protagonisti della privatizzazione permessa da Lenin negli anni della Nep, la prima riforma economica. Anche il nonno divenne una vittima delle purghe staliniane: un giorno fu arrestato, e spedito nel gulag. "Tornò a casa nel 1939, dopo tutte le torture che aveva subìto", ricorderà Gorbaciov una volta al potere, "tutta la famiglia sedette intorno a lui ad ascoltarlo, soffocando grida di orrore quando ci raccontò cosa gli avevano fatto". Il nonno ebbe un’altra fondamentale influenza su Mikhail, regalandogli un paio di valenki, i tradizionali stivali di feltro russi, che gli permisero di compiere il viaggio sino a scuola nel gelo e nella neve dell’inverno. Le "medie superiori" erano in un altro villaggio, a 15 chilometri di distanza, Krasnogvardejskij: Mikhail, come un pendolare, partiva da Privolnoe la domenica sera, e tornava a casa il sabato pomeriggio, vivendo durante la settimana nella casa di amici di famiglia. Compiva il tragitto a piedi quando il tempo lo permetteva, o su un carro trainato da un cavallo che trasportava fieno. […] Aveva 18 anni quando trascorse le vacanze scolastiche sulla trebbiatrice del padre, producendo un raccolto di grano da record: con un berretto di traverso sul capo, sudava nei campi da mattina a sera, poi andava con gli amici a rinfrescarsi con un bagno nelle acque dello Egorlyck, il fiumiciattolo che attraversa il paese. Fu così che guadagnò l’Ordine della Bandiera Rossa, la più alta decorazione al lavoro di quell’epoca. […] Finiti gli studi, nel 1950 […] Mikhail Sergeevic lasciò Privolnoe per iscriversi all’Università di Mosca. Era un "provinciale" rispetto ai suoi compagni, e forse senza l’Ordine della Bandiera Rossa del Lavoro, una decorazione rara fra gli studenti, non sarebbe stato ammesso nella più prestigiosa ed esclusiva istituzione accademica del Paese. Ma con il premio guadagnato sui campi di grano, con la sua educazione da ragazzo di campagna, e con un solo paio di pantaloni, quelli che portava addosso, il "contadino" di Privolnoe riuscì a "sbarcare" nella capitale, dove avrebbe conosciuto Raissa e imboccato la strada di una rivoluzione che ha cambiato lui, l’Urss e il mondo» (Enrico Franceschini). A Mosca conseguì due lauree, in Giurisprudenza e in Economia agraria, e mosse i primi passi in politica. «La sua carriera si potrebbe dividere in due periodi. Nell primo, che va dal 1952, anno in cui entrò nel partito, al 1978, quando venne chiamato a Mosca e nominato responsabile dell’agricoltura presso la Segreteria del Comitato centrale, non è molto dissimile da quella degli alti funzionari provinciali: responsabile locale e provinciale del Komsomol (Lega della gioventù comunista) di Starvropol, città al centro di un’importante zona granaria; poi membro della segreteria, fino ad essere primo segretario del Pcus. Una trafila come ce ne sono state migliaia. […] Nel 1978 arriva la chiamata a Mosca. Gorbaciov ha 47 anni; è un esperto di agricoltura, ma negli ultimi tre anni i raccolti nella zona di Stavropol sono stati disastrosi. Alcuni cremlinologi hanno raccontato l’improvvisa fortuna in chiave campanilistica: Yuri Andropov, gran protettore di Gorbaciov, era nativo di Stavropol; i contatti tra i due risalirebbero ai primi anni ’70. In realtà il legame con Andropov si stabilisce nella Segreteria del Comitato centrale e si stringe per affinità intellettuali, per una comune, pragmatica visione politica. Sotto la potente ala del capo del Kgb, Gorbaciov scala in pochissimi anni i massimi vertici: membro supplente al Politburo nel 1979, membro effettivo nel 1980. In Occidente viene visto come uno dei maggiori esponenti del "riformismo moderato" – per quanto possano valere queste definizioni –, delfino del leader, Andropov. In questa chiave è stata interpretata la sua candidatura alla morte di Andropov, in opposizione a quella del "burocrate" Cernienko. Ma quando Cernienko viene eletto segretario generale, nel febbraio 1984, Gorbaciov rimane al suo posto, e anzi accresce il suo potere, fino a diventare supervisore del settore ideologico e numero due del regime: "il nostro secondo segretario generale", come lo aveva definito […] il direttore della Pravda» (Stefano Malatesta). La svolta giunse nel marzo 1985. «“Lo conosco bene – disse Andrej Gromyko –: è giovane, ma ha i denti d’acciaio”. Quel plenum del Comitato centrale non riusciva a decidersi tra la tentazione a mummificare ogni leadership in gerontocrazia (quasi per un bisogno istintivo di ingessare fisicamente l’ortodossia a garanzia dell’immobilità, per evitare ogni cambiamento) e la vertigine di un precipizio che apriva verticalmente la “classe eterna” al vertice dell’Urss per puntare su un uomo di vent’anni più giovane del segretario generale Cernenko, appena morto dopo dodici mesi di completa paralisi. Gromyko garantì per lui, rassicurò i conservatori, e l’11 marzo […] Mikhail Sergeevic Gorbaciov arrivò alla guida del partito comunista dell’Urss e della superpotenza sovietica, minacciosa e stremata padrona di metà del mondo» (Ezio Mauro). «Quando Michail Gorbaciov arrivò sulla scena del mondo, lo shock fu simile a quello provocato dal lancio del primo satellite artificiale Sputnik nel 1956. Sembrò di colpo che quel grigio e misterioso mondo dell’Unione Sovietica dove nessuno sembrava felice avesse prodotto un nuovo fenomeno in grado di riportare il Paese della Rivoluzione d’Ottobre alla ribalta del progresso e dell’innovazione. […] L’uomo nuovo […] era relativamente giovane, e aveva persino una moglie giovane e graziosa come Raissa, che poteva essere equiparata a una First Lady. Una svolta formale che sembrava anche sostanziale» (Paolo Guzzanti). «Con lui per la prima volta sale al vertice del Pcus il rappresentante di una generazione che non ha fatto la Rivoluzione d’Ottobre, non ha vissuto gli anni bui dello stalinismo e non ha combattuto nella Seconda guerra mondiale. […] In Italia nelle redazioni dei giornali e nei dibattiti in tv si interpellano i corrispondenti da Mosca e i “cremlinologi” per capire se le due parole chiave del vocabolario di Mikhail Gorbaciov – “perestrojka” (ristrutturazione economica) e “glasnost” (trasparenza politica) – porteranno davvero a un cambiamento profondo dell’Unione Sovietica. A differenza dei suoi predecessori, Gorbaciov non assume la presidenza del Soviet Supremo (carica equivalente a quella di capo dello Stato), ma vi designa il vecchio Andrej Gromyko, ministro degli Esteri dell’Urss fin dal 1957. A guidare la diplomazia chiama invece un uomo fidato, il georgiano Edvard Shevardnadze. I due incontri di Gorbaciov con il presidente americano Ronald Reagan – a Ginevra nel novembre 1985 e a Reykjavík nell’ottobre 1986 – fanno ben capire quanto i nuovi leader moscoviti siano sinceri nel volere la distensione e il disarmo, meritando la fiducia dell’Occidente. Usa e Urss avviano un negoziato, concluso a Washington nel dicembre 1987, per l’eliminazione dall’Europa dei missili di breve e media gittata. Tra il 1988 e il 1989 Gorbaciov ritira le truppe dall’Afghanistan (invaso dall’Armata rossa quasi dieci anni prima) e convince Fidel Castro ad abbandonare l’Angola. La politica di non intervento archivia la “dottrina Breznev”, permettendo ai governi dell’Est europeo di essere artefici del proprio destino politico. Le elezioni in Polonia sono vinte dai cattolici di Solidarnosc e l’elettricista di Danzica Lech Walesa prende il posto del generale Jaruzelski alla presidenza della Repubblica. Infine, nella notte tra il 9 e il 10 novembre 1989, cade il muro di Berlino: uno di quegli eventi che “tagliano” il corso della storia. […] Nei vertici di Malta (dicembre 1989) e di Mosca (luglio 1991), il successore di Reagan, George Bush Sr., e Gorbaciov fanno un altro passo avanti verso il disarmo nucleare – dal trattato Salt al trattato Start I –, che prevedeva non solo la limitazione, ma anche la riduzione di un terzo delle testate nucleari delle due parti. La Guerra fredda era finita. Prima di recarsi a Malta, Gorbaciov compie una visita di tre giorni in Italia con la moglie Raissa. A Roma tiene un discorso in Campidoglio denso di richiami alle ragioni della pace e dei diritti umani; in Vaticano avviene la storica stretta di mano fra i due maggiori protagonisti della svolta politica nell’Est europeo, il leader comunista e il papa polacco Giovanni Paolo II. […] Nel 1990 Gorbaciov raggiunge l’apice dei riconoscimenti: viene confermato segretario del Pcus e presidente della Repubblica con ampi poteri (dopo la riforma costituzionale del 1989), insignito del Premio Nobel per la pace. Pareva vicina la prospettiva di un mondo sempre più cooperativo e pacifico, grazie al trionfo dei princípi della democrazia e del mercato: quasi la “fine della storia” vagheggiata dal politologo americano Francis Fukuyama nel suo famoso libro The End of History and the Last Man. Ma fu ottimismo di breve durata. La situazione interna nell’Urss andava facendosi sempre più difficile e cresceva il malcontento: le riforme proposte da Gorbaciov si scontrarono con le resistenze burocratiche e l’opposizione dei poteri forti, facendo precipitare il Paese in una disastrosa crisi economica e riacutizzando le spinte indipendentistiche e i conflitti etnici fino ad allora repressi. Nel luglio 1991 Gorbaciov andò al summit del Paesi più industrializzati a Londra per chiedere un sostegno al suo piano di riforme, ma la maggioranza del G7 si espresse contro la concessione dei sostanziosi crediti da lui richiesti per affrontare la crisi economica e mantenere il controllo della situazione politica interna (nonostante le buone intenzioni dell’Italia di Andreotti, della Francia di Mitterrand e anche della Germania di Kohl)» (Pietro Fornara). «Gli occidentali non lo aiutarono. […] Se ne tornò a Mosca con uno squallido voto di raccomandazione per essere ammessi, come osservatori, al Fondo monetario. Di qui cominciò la parabola discendente del nuovo corso moscovita. Non fu difficile al muscolare signor Eltsin metterlo in crisi; e buon per lui se non fu spedito al Creatore» (Giulio Andreotti). «A Mosca il 19 agosto 1991 scatta un tentativo di colpo di Stato, organizzato dai conservatori del Pcus, che tuttavia fallisce. Ma Gorbaciov di fatto perde il potere, anche se il mondo esterno lo crede ancora al comando, come ha scritto Hélène Carrère d’Encausse (La Russie entre deux mondes, 2010, pubblicato in italiano da Salerno editrice): “È il rivale – e inizialmente suo protetto – Boris Eltsin, l’uomo salito in piedi su un carro armato, simbolo della resistenza al ‘putsch’, a prendere in mano la situazione”» (Fornara). «Davanti al Parlamento russo, il 23 agosto, Gorbaciov ringrazia Eltsin per il suo intervento in difesa dello Stato, denuncia le responsabilità dei golpisti, ma viene duramente contestato dall’uditorio, che gli rinfaccia di avere dato lui il potere a chi ha poi cercato di eliminarlo politicamente. […] In pochi giorni si sgretolano l’Urss e il comunismo: le tre Repubbliche del Baltico – Estonia, Lettonia e Lituania – proclamano l’indipendenza, che il 27 agosto è riconosciuta dalla Comunità europea; anche a Kiev il Parlamento ucraino vota l’indipendenza e indice il referendum popolare per il 1° dicembre; a fine mese seguiranno le Repubbliche sovietiche dell’Asia centrale. Gorbaciov il 24 agosto si dimette da segretario generale del Partito comunista dell’Unione Sovietica. Formalmente resta presidente della Repubblica fino alla sera di Natale, quando annuncia le sue dimissioni in un breve discorso in tv. La bandiera rossa con falce e martello viene ammainata dal più alto pennone del Cremlino e sostituita con quella bianco-rosso-blu della Federazione Russa (rispolverata dal tempo degli zar). Il 26 dicembre 1991 si riunisce per l’ultima volta il Soviet supremo, che ratifica lo scioglimento dell’Urss» (Fornara). «L’Unione Sovietica cessò di esistere il 31 dicembre del 1991. Ma il suo certificato di morte fu firmato in Bielorussia l’8 dicembre di quell’anno dai presidenti di Russia, Ucraina e Bielorussia, Boris Eltsin, Leonid Kravchuk e Stanislav Shushkevich. […] "Dal giorno del mio ritorno dalla Crimea dopo il golpe di agosto non avevo fatto altro che tentare di ricucire uno straccio di trattato per rifondare l’Unione. Con le Repubbliche che ci volevano stare. Alle loro condizioni. Anche senza di me. Almeno una parte. Certo non i Baltici, che avevano già deciso. Trattative su trattative, bozze di accordo su bozze di accordo per cercare di tenere insieme il Paese. L’Ucraina non partecipò: soprattutto dopo il referendum sull’autonomia, rifiutava ogni incontro. Ma io mi ostinavo caparbiamente a tentare ogni carta. Ero convinto che, se la Russia, la Bielorussia e gli altri avessero firmato, in qualche modo anche Kiev avrebbe aderito. Eltsin continuava a dire ‘l’Unione ci sarà’. Ma aveva ben altre intenzioni". […] Lei si dimise solo il 25 dicembre del 1991. "Nei 17 giorni che seguirono gli accordi di Belovezha mi aspettavo una reazione degli intellettuali, della gente. Certo, il Paese era sotto choc. Nessuno comunque scese per strada. Sembrava quasi che le sorti dell’Urss fossero un problema soltanto mio. Non ci fu un ukaz per destituirmi. Lo decisi autonomamente. Salutai i leader stranieri, parlai al Paese e me ne andai"» (Fiammetta Cucurnia). «“Termino qui le mie attività di presidente dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche”, annunciò in tv la sera di Natale del 1991, mentre sul Cremlino veniva ammainata la bandiera rossa dell’Urss. […] “Sono molto preoccupato, ma ho anche fiducia e speranza. […] Avevamo molto di tutto – terra, petrolio e gas, altre risorse naturali – e intelletto e talento in abbondanza. Eppure, vivevamo peggio dei Paesi industrializzati… Questo Paese soffocava, incatenato da un sistema di comando burocratico… schiacciato dal peso della corsa agli armamenti… Stavamo andando verso il nulla, dovevamo cambiare tutto radicalmente”. Poi Gorbaciov difese la decisione di imboccare la via delle riforme, e fece un bilancio: “Le elezioni libere sono diventate realtà… libera stampa, libertà di culto, un sistema multipartitico, un’economia diretta verso la parità di tutte le forme di proprietà”. Disse: “Questa società ha acquisito la libertà… ma non abbiamo ancora imparato a usarla”. Negli anni successivi vennero lo sviluppo selvaggio dell’economia e le disuguaglianze, la ricerca di un’identità per un Paese abituato a essere impero e non più potenza. Vennero povertà e crisi e guerre, e poi venne Putin, che garantì stabilità in cambio di una gestione autoritaria del sistema» (Antonella Scott). Dopo le sue dimissioni, proclamandosi socialdemocratico, Gorbačëv provò in più di un’occasione a recuperare un ruolo politico di primo piano, senza tuttavia riuscirci: emblematica la débâcle rimediata dalla sua candidatura da indipendente, con appena lo 0,5% dei consensi (settima posizione), alle elezioni presidenziali del 1996, le stesse che sancirono, al secondo turno, la conferma al potere dell’odiato Eltsin, con il 54,4% dei voti. In seguito, nei confronti di Putin Gorbačëv ha dimostrato un atteggiamento ambivalente, critico verso la sua impostazione scarsamente democratica e la sua eccessiva permanenza al potere e favorevole invece ai suoi interventi in ambito economico (soprattutto nei primi anni) e alle sue rivendicazioni territoriali, con particolare riguardo alla Crimea. «“Al posto di Putin avrei agito allo stesso modo”, ribadisce. […] “La libera volontà popolare e la maggioranza dei cittadini della Crimea voleva che fosse riannessa alla Russia”. […] Gli dico che Gorbaciov, l’uomo che ha contribuito alla caduta del Muro di Berlino rifiutandosi di reprimere le sommosse popolari nell’Europa dell’Est, non avrebbe annesso la Crimea. La sua risposta è ancora più eloquente: “L’unico vero motivo per cui non lo avrei fatto è che, se fossi rimasto al potere, avrei tenuto in vita l’Unione Sovietica, e la Crimea ne farebbe ancora parte”» (Mark Franchetti) • Da ultimo è stato il protagonista di un documentario girato da Werner Herzog e André Singer, Meeting Gorbachev, che nel gennaio 2019 ha aperto il Trieste Film Festival. «Herzog tratteggia il ritratto-testamento di un uomo e di un politico che inseguendo un ideale di socialdemocrazia ha cambiato le sorti del mondo. Il suo sogno, però, si è realizzato solo a metà. Gorbachev, stoikiy muzhik, appare come una figura tragica che vive in attesa di terminare i suoi giorni. Quell’uomo che per tutti aveva sognato un mondo migliore oggi è un uomo solo con i suoi rimpianti, che sulla propria tomba vorrebbe l’epitaffio “We tried”. Ci abbiamo provato» (Beatrice Fiorentino) • Una figlia, Irina (1957), dall’amatissima moglie Raisa Gorbačëva (1932-1999), «con cui ha condiviso 46 anni di matrimonio e una profondissima amicizia. I due, inseparabili, si erano incontrati all’università, e nel 1953 […] si sposarono. Gorbaciov mi racconta che ogni mattina, per tutti quegli anni, facevano una passeggiata di sei chilometri. “Ogni giorno, ovunque fossimo e con qualsiasi tempo: nemmeno neve e temporali ci fermavano. Anche perché Raissa adorava il temporale: se io dicevo ‘Per l’amor del cielo, stiamo a casa’, lei mi rispondeva tutta contenta ‘Dai, andiamo!’. E così mi sono abituato a camminare sotto la pioggia. Quando è morta ho smesso di fare passeggiate, e la mia salute è peggiorata» (Franchetti). «Non mi sono mai sentito tanto solo. Io e Raisa abbiamo convissuto quasi cinquant’anni, senza mai separarci e senza sentirci mai di peso l’uno per l’altra: insieme siamo stati sempre felici. Ci amavamo, ma anche in privato non ce lo confessavamo spesso. L’essenziale era preservare quel sentimento che era nato tra noi fin dagli anni della giovinezza. Ci comprendevamo e cercavamo di proteggere il nostro rapporto» • «Gorbaciov non riuscì mai ad essere eletto dal popolo, fallendo ogni tentativo di legittimazione dopo il ripristino di una parvenza di democrazia. Così rimase quel che era stato fin dall’inizio: l’ultimo prodotto del sistema di potere, incapace di riformarlo come aveva promesso e sognato, e alla fine prigioniero di un meccanismo che non faceva sconti a nessuno» (Guzzanti). «I giudizi politici su un uomo o su un evento dipendono spesso dagli effetti che quell’uomo o quell’evento hanno avuto per la vita di coloro che giudicano. È naturale che le democrazie occidentali diano di Michail Gorbaciov un giudizio positivo; ed è altrettanto naturale che i russi abbiano per lui sentimenti alquanto diversi. Per le democrazie la politica riformatrice dell’ultimo leader sovietico ha significato la conclusione della Guerra fredda, la fine dell’èra del reciproco ricatto nucleare, il ritorno alla libertà dei Paesi satelliti. Per i russi ha significato il crollo della grande potenza a cui erano orgogliosi di appartenere, la perdita dei benefici economici e sociali (mediocri ma garantiti) di cui tutti avevano goduto, l’avvento di oligarchie rapaci e di organizzazioni criminali, una lunga sequenza di sanguinose guerre civili. Esiste poi il giudizio storico, quello che cerca, per quanto possibile, di sfuggire al criterio della convenienza personale e viene dato con un certo neutrale distacco. Considerato in questa prospettiva, Gorbaciov è un riformatore fallito. Sperò di rinnovare il sistema sovietico iniettando nel corpo inerte dell’Urss una forte dose di dinamismo economico (la perestrojka) e assicurando una maggiore trasparenza dei pubblici poteri (la glasnost), ma riuscì soltanto a mettere in maggiore evidenza gli incurabili mali del regime. Il maggiore paradosso del riformismo gorbacioviano fu che la perestrojka non funzionò e la glasnost funzionò fin troppo bene: mentre la riforma dell’apparato industriale produceva risultati opposti a quelli desiderati dal Cremlino, la stampa e i cittadini erano più liberi di giudicare e criticare. Gli errori di Gorbaciov furono dovuti in buona parte alla sua formazione sovietica. Credeva che il maggiore dinamismo dei dirigenti delle aziende fosse compatibile con la proprietà pubblica di tutti i mezzi di produzione. Credeva che la crescita di una più libera opinione pubblica fosse compatibile con l’esistenza di un solo partito. Credeva che i soviet invocati dalla rivoluzione leninista fossero stati, sia pure per un breve periodo, organismi democratici (non lo furono mai). E non tenne conto di una famosa riflessione di Alexis de Tocqueville: “Un popolo che ha sopportato a lungo, senza protestare, un regime oppressivo si ribella quando si accorge che il governo ha allentato la sua pressione”. In altre parole, accade spesso che i cattivi regimi crollino quando i loro leader tentano di riformarli» (Sergio Romano). «Non esiste una teoria politica, un pensiero, a guidare una stagione che pure metterà fuori gioco la cremlinologia cambiando involontariamente la storia d’Europa e liberando la geografia dell’Urss, fino a travolgere la stessa “natura” sovietica, immobile e intatta per settant’anni, costruita com’era col ferro e col fuoco per durare per sempre. Gorbaciov è tutto prassi, sospinto da uno stato di necessità che lo porta a cambiare, senza sapere dove il cambiamento lo porterà. Non ha un ceto di riferimento, né una leva sociale a disposizione, né una cultura di ricambio. Si muove interamente dentro l’orizzonte del comunismo – perestrojka non è altro che “ristrutturazione” – tentando un’opera di manutenzione straordinaria, senza sapere dov’è la sponda verso la quale si dirige a zig zag, mentre dietro di lui la vecchia sponda brucia. La sponda, evidentemente, sarebbe diventata visibile solo pronunciando la parola definitiva della fuoruscita dal comunismo: democrazia. Ma tutto il gorbaciovismo sta al di qua di quell’approdo, che non riesce a concepire, tutta l’idea-forza del leader è imprigionata nel fascino a sovranità limitata di due concetti intermedi, di due parole a metà: perestrojka invece di democrazia, glasnost (trasparenza) invece di verità. Il comunismo sovietico ferma qui il suo alfabeto leninista, non riesce nemmeno nella fase di massima torsione ad andare oltre se stesso. Eppure in quei sei anni il mondo ha creduto possibile l’impossibile, perché tutte le spinte scomposte che Gorbaciov ha messo in campo avevano superato la soglia russa dell’incredibile» (Mauro). «La causa più profonda della fine del comunismo russo era nel comunismo stesso, giunto nel 1985, quando Gorbaciov diventa segretario, alla carenza d’ossigeno e alla fase della disintegrazione che era fisiologica e che si sarebbe compiuta comunque: anche se al posto del conservatore illuminato vi fosse stato un conservatore oscurantista. […] Egli, seppure nolente più che volente, ha agito come uno strumento dell’astuta fatalità o giustizia della storia. In quanto tale, ogni spirito liberale lo ricorderà sempre con rispetto» (Enzo Bettiza) • «Prima o poi, il Muro di Berlino doveva cadere. Certo, senza la perestrojka e i cambiamenti che avvennero in Urss non sarebbe stato possibile. L’Europa sarebbe rimasta incastrata per molto tempo ancora. Invece, tutto accadde. Senza sangue. E il merito è di quella generazione di leader che scoprì l’ingrediente per risolvere i problemi: la fiducia. Quello che bisogna ritrovare». «“Noi credemmo in un nuovo ordine mondiale, ma gli Usa hanno cambiato comportamento molto rapidamente. Hanno elaborato una nuova politica: la guida del mondo da Washington. Sono troppo abituati a essere i padroni. E dunque hanno voltato le spalle agli accordi e ai princìpi di allora. […] La Germania oggi non è libera. I leader europei non sono liberi. E non a causa di Bruxelles: a causa degli Stati Uniti”. Dunque quella casa comune europea in nome della quale si rinunciò al Muro oggi sembra un’occasione mancata? “Noi pensavamo a tutta l’Europa unita, Russia inclusa. Anche se in quel momento l’Unione europea non era pronta per un passo così. Poi, via via, il concetto di Europa è stato riformulato, e non a Mosca: ora, quando si parla d’Europa si intende solo l’Europa occidentale”» (Cucurnia). «Il più grande rimpianto di Gorbaciov è quello di non essere riuscito a evitare il collasso dell’Unione Sovietica. “Mi rammarico che un grande Paese con grandi potenzialità e risorse sia scomparso. La mia intenzione è sempre stata quella di riformarlo, non distruggerlo”. Gli faccio notare l’amara ironia secondo cui in patria viene criticato, mentre all’estero viene osannato per il suo ruolo nel tramonto dell’Unione Sovietica, ma la verità è che l’opinione pubblica sembra non capire che questa era l’ultima cosa che voleva. “Lei è senz’altro il leader più incompreso del mondo. La gente ancora oggi non la capisce”, gli suggerisco. “Capiranno, capiranno”, ribatte lui con un sorriso. “Serve pazienza”» (Franchetti).