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 2019  febbraio 28 Giovedì calendario

Un week end senza cellulare e sono guarito

Mi chiamo Kevin e ho un problema con il cellulare. Sono sempre stato uno che usava moltissimo il telefono, ma a un certo punto, l’anno scorso, ho varcato la linea invisibile e sono entrato in territorio patologico. I miei sintomi erano quelli tipici: non riuscivo più a leggere libri, a guardare lungometraggi o ad avere delle conversazioni senza interruzioni. Ho provato vari trucchi per limitare l’uso del telefono, come cancellare Twitter ogni weekend, impostare la visualizzazione dello schermo in bianco e nero e installare un blocca-app. Ma ci ricadevo sempre.
All’ultimo ho deciso che non potevo più andare avanti così. Ho chiamato Catherine Price, una giornalista scientifica autrice di Come disintossicarti dal tuo cellulare, una guida in trenta giorni per eliminare le cattive abitudini telefoniche. E ho implorato il suo aiuto. Grazie al cielo, lei ha accettato di farmi da coach telefonica. Il suo programma punta ad affrontare le ragioni di fondo della dipendenza telefonica, per esempio gli stimoli emotivi che in partenza ti spingono a prendere in mano il telefono. Lo scopo non è tagliare i ponti con internet. Si tratta semplicemente di sganciare il cervello dalle abitudini nocive che ha adottato intorno a questo dispositivo specifico, e agganciarlo a cose migliori.
Come prima cosa, le ho inviato le mie statistiche sul tempo trascorso davanti al display, che indicavano che quel giorno avevo passato 5 ore e 37 minuti sul mio cellulare e lo avevo preso in mano 101 volte, più o meno il doppio dell’americano medio. «È una cosa folle, mi viene voglia di farla finita», le ho scritto. «Devo riconoscere che questi numeri sono un tantino terrificanti», mi ha risposto.
Catherine mi ha incoraggiato a predisporre dei «dissuasori di velocità» mentali, per costringermi a prendermi quel secondo di riflessione prima di interagire con il mio telefono.
Per esempio ho messo un elastico intorno al telefono e ho cambiato la schermata d’accesso con una che mostrava tre domande da pormi ogni volta che sbloccavo il telefono: «Per fare cosa? Perché adesso? Cos’altro potrei fare?».
Nei giorni successivi sono diventato acutamente consapevole delle bizzarre abitudini telefoniche che avevo sviluppato. Prendevo in mano il cellulare ogni volta che mi lavavo i denti o varcavo il portone d’ingresso del mio condominio, e che controllavo sempre la posta in arrivo nell’intervallo di tre secondi tra il momento in cui inserivo la carta di credito nel Pos di un negozio e il momento in cui la carta veniva accettata.
Se volevo risanare il mio cervello, dovevo esercitarmi a non fare nulla. Così, durante la camminata mattutina fino all’ufficio, mi sono messo a guardare gli edifici intorno a me, a osservare dettagli architettonici che non avevo mai notato prima. In metropolitana, ho tenuto il telefono in tasca e ho cominciato a guardare le persone.
Catherine mi aveva avvisato che avrei potuto provare un malessere esistenziale, senza il cellulare a distrarmi. Mi aveva detto anche che dedicando più attenzione a quello che mi stava intorno mi sarei accorto di quante altre persone usano i loro telefoni per vincere la noia e l’ansia.
Il passo successivo è stato applicare al mio telefono il metodo Marie Kondo: passare in rassegna tutte le applicazioni e tenere solo quelle che mi procuravano gioia e incoraggiavano abitudini salutari, buttando via le altre.
Nel mio caso, ha significato cancellare Twitter, Facebook e tutte le altre applicazioni social, insieme alle app di notizie e ai giochi. Ho tenuto servizi di messaggeria come WhatsApp e Signal, e cose utili che non sono fonte di distrazione, come app di cucina e di navigazione. Ho disabilitato tutte le notifiche, tranne quelle per telefonate e messaggi in arrivo da una lista preselezionata di persone, fra cui il mio direttore, mia moglie e una manciata di amici stretti.
Anche dove tieni il telefono è importante. Degli studi hanno dimostrato che le persone che non caricano il loro telefonino in camera da letto sono molto più felici. Catherine lascia a caricare il suo telefono dentro un armadio; per me ha raccomandato una minicassaforte con serratura. Ne ho comprata una e ci ho messo dentro il cellulare, ottenendo di ridurne l’uso nelle ore notturne e sentirmi come se custodissi i gioielli della regina. Poi è arrivata la «separazione di prova», un periodo di 48 ore in cui mi proibisco di usare il mio telefono o qualsiasi altro dispositivo digitale.
All’inizio ero terrorizzato all’idea, ma quando alla fine il weekend è arrivato ero stordito dall’eccitazione. Ho affittato su Airbnb una casa senza corrente elettrica sui monti Catskills, ho avvisato il mio direttore che sarei stato offline per il weekend e sono partito.
Un weekend senza telefono ha comportato qualche complicazione: senza Google Map, mi sono perso e ho dovuto fermarmi per chiedere indicazioni; senza Yelp, ho avuto problemi a trovare dei ristoranti aperti. Ma in generale è stato fantastico. Per due giorni pieni mi sono crogiolato in un riposo ottocentesco, sentendo i nervi che si rilassavano e il mio intervallo d’attenzione che tornava a dilatarsi. Ho letto libri.
Ho fatto parole crociate. Ho acceso un fuoco e ho guardato le stelle. Mi sono sentito come Thoreau, se Thoreau si domandava periodicamente che cosa stava succedendo sul canale Instagram di Alexandra Ocasio-Cortez.
Ho anche provato delle fitte di rabbia: contro me stesso, per essermi negato per tutti questi anni questa sensazione di corroborante tedio; contro gli ingegneri della Silicon Valley, che passano le loro giornate a sfruttare a fini di profitto le nostre debolezze cognitive; verso l’intero complesso telefonico-industriale, che ci ha convinti che un rettangolo di vetro e acciaio di 15 centimetri sia il canale ideale per sperimentare il mondo.
Ma non mi stanco di ripetere che, nelle condizioni giuste, trascorrere un intero weekend senza un telefono nelle immediate vicinanze è qualcosa di incredibile. Dovete provarlo.


(Kevin Roose ha una rubrica sul New York Times, The Shift, che analizza gli intrecci fra tecnologia, affari e cultura).
© 2019 The New York Times (Traduzione di Fabio Galimberti)