Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  febbraio 28 Giovedì calendario

Intervista ad Alessandro Borghi

Per un istante abbassa lo sguardo, come preso da un pensiero. Dice: «Solo oggi ho realizzato che Sulla mia pelle è il primo film di Netflix candidato ai David di Donatello». Alessandro Borghi è l’attore italiano del momento: dopo il successo di Sulla mia pelle è tornato al cinema con Il primo Re; ora è nella seconda stagione di Suburra, già disponibile su Netflix, ed è al lavoro sul set de I Diavoli, la serie di Sky e Lux Vide. Ammette di essere contento: «Lo sono in generale. Perché il cinema sta attraversando una fase straordinaria, e io ne faccio parte».
Come ha reagito quando ha saputo della nomination ai David per il ruolo di Stefano Cucchi?
«Se devo essere onesto, un po’ me l’aspettavo. Sono stato più felice per le altre candidature, per Alessio Cremonini, il regista e per la produzione di Sulla mia pelle. Perché fare un film del genere è una dimostrazione di grande coraggio».
C’è chi non vede di buon occhio che un film esca in streaming, su Netflix, e nello stesso giorno in sala.
«Chi si batte contro questo sistema lotta contro la risorsa più grande per i prossimi anni. Bisogna aprirsi, non chiudersi. Devo per forza citare il direttore della Mostra di Venezia Alberto Barbera». 
Perché?
«È stato il primo a capire il valore e l’importanza di questo fenomeno. Venezia è stata la prima ad abbracciarlo».
Anche «Il primo Re» di Matteo Rovere rappresenta una novità.
«Al cinema è andato bene, e andrà sicuramente meglio in giro per il mondo. Al mercato di Berlino ha avuto molto successo. È un film di cui sono profondamente orgoglioso».
L’ha girato subito dopo essere stato padrino alla Mostra di Venezia, e prima di «Sulla mia pelle».
«Sono stati quattro mesi di paura. Ce le abbiamo tutte, le paure. Non è ansia la mia, voglio solo fare le cose bene. E quando c’è il rischio di non farle bene, ho paura». 
Ci racconti quei mesi.
«Stavo per partire per la Mostra di Venezia, subito dopo la preparazione fisica de Il primo Re. Ho imparato il protolatino al Lido, andando a correre ogni mattina e riascoltando le battute. Da Venezia, poi, sono dovuto andare sul set per il trucco».
E intanto era a dieta per «Sulla mia pelle».
«Il primo Re è stata un’esperienza incredibile. Mi ha portato alle radici di ogni cosa. A contatto con la terra, con lo sporco, con il mondo, con l’essenzialità. Con la fisicità. Negli ultimi dieci giorni ho perso sette chili».
Perché crede che il film su Stefano Cucchi sia un film importante?
«Sulla mia pelle non è solo un film importante; è uno dei film più importanti degli ultimi quindici anni di cinema italiano. E non lo dico per la mia interpretazione. Quello è il mio lavoro: sono pagato per farlo bene. Ma dietro Sulla mia pelle c’è l’intelligenza sfrenata degli scrittori, che hanno ridotto a zero la possibilità che venisse strumentalizzato, e la grandissima capacità registica di Alessio Cremonini». 
Era un film che andava fatto?
«Doveva essere fatto. E ne dovremmo fare altri cento di film così su tutte quelle verità rimaste in sospeso».
Per esempio?
«La storia che mi lascia più perplesso è quella di Giulio Regeni: è una cosa che non riesco proprio a mandare giù. Sono pronto a girare domani stesso un film, se questo può essere d’aiuto».
Meglio il cinema o la televisione?
«Ho un problema con la routine, e se dovessi scegliere sceglierei sempre il cinema. Mi piace cambiare. Ma in tv ci sono queste possibilità incredibili, adesso. C’è Suburra e ci sono I Diavoli. Saltare da una dimensione all’altra aiuta a riconoscere i valori dell’una e dell’altra».
Che cosa ci può dire de «I Diavoli»?
«Forse, ad ora, è una delle più grosse sfide della mia vita. Quando mi hanno detto che volevano incontrarmi, io sono andato ai provini senza nessuna aspettativa. Ero rilassatissimo e forse proprio per questo poi è andato bene. Se è andata così, però, è stato grazie a Nick Hurran, uno dei registi della serie. È un signore che lavora in tv da trent’anni, una persona straordinaria: mi ha permesso di sentirmi a mio agio».
Prima non lo era?
«Non ero sicuro di essere in grado di fare una serie in inglese, con un accento british, in cui si parla solo di finanza, con tutti attori internazionali, da Patrick Dempsey a Lars Mikkelsen. E invece in un’ora è diventata la mia nuova normalità».
I ruoli più interessanti sembrano arrivare dal piccolo schermo.
«L’unica vera differenza tra cinema e tv è che attraverso la serialità ora si può puntare a progetti internazionali. Nel nostro Paese il cinema sembra essere sempre rischioso per i produttori. Ma le cose cambieranno».