La Stampa, 28 febbraio 2019
Chi non è istruito vive meno
In Italia aumentano le diseguaglianze sociali e di pari passo quelle di fronte alla salute. Così chi tra gli uomini se la passa peggio e possiede un livello di istruzione più basso ha, rispetto agli altri, tre anni di vita in meno di fronte a sé. Un anno e mezzo se il disagiato è donna. Del resto i maschi meno istruiti hanno una probabilità di morire per qualche malattia superiore del 35%. Percentuale che scende a un pur sempre considerevole 24% tra le donne. Se poi il disagio sociale si vive al sud va anche peggio, perché qui il cattivo funzionamento dei servizi sanitari e la scarsa prevenzione fa perdere un ulteriore anno nella speranza di vita.
Che essere più poveri e con in tasca un titolo di studio basso facesse male alla salute lo si sapeva già, ma l’Atlante delle diseguaglianze di mortalità messo a punto dall’Istituto nazionale per la salute dei migranti e il contrasto della povertà, presentato ieri a Roma, lo ha ora dimostrato con numeri dettagliati per ogni provincia del Paese. Con qualche sorpresa. Ad esempio un decesso su quattro sarebbe evitabile in Campania, Puglia e Calabria se non ci fossero le diseguaglianze in termini di istruzione che ci sono. Ma il problema è della stessa gravità anche in Liguria. Mentre in Piemonte, Friuli, Marche, Umbria e nella più disagiata Sicilia possedere un titolo di studio più basso non incide sulla mortalità evitabile.
Se poi andiamo a vedere le differenze tra chi sta socialmente meglio e chi peggio nelle singole province scopriremo che la forbice delle diseguaglianze sanitarie si allarga maggiormente nell’economicamente più forte Nord dove le differenze sociali sono tuttavia più marcate. In Piemonte, fatta eccezione per la provincia di Cuneo, il rischio di perdere la vita per motivi di salute è tra il 20 e il 70% più elevato tra la popolazione meno istruita, rispetto alla media. E così è anche per larga parte delle provincie lombarde, il Friuli e parte del Veneto. Tutte aree del Paese dove non si può di certo dire che la sanità non funziona. Del resto un recente studio della Deloitte ha rilevato che la qualità dell’assistenza sanitaria incide solo per il 15-25% sulla salute delle persone, il resto la fanno l’esposizione all’inquinamento ambientale e l’appartenenza ai ceti sociali più deboli. Soprattutto quando si vive nelle grandi città, dove le diseguaglianze sono più marcate. Per capire la dimensione del problema basta pensare che in Europa 700 mila decessi e 33 milioni di malattie dipendono dalle discriminazioni sociali.
«Il fatto - spiega Walter Ricciardi, direttore dell’Osservatorio salute dell’Università Cattolica - è che in Italia aumentando le diseguaglianze socio-economiche crescono anche quelle rispetto alla salute, con le popolazioni del sud due volte svantaggiate perché ai danni sociali si sommano quelli di servizi inefficienti e di screening che in oncologia non raggiungono il 30% della popolazione mentre al Nord sfiorano il 100%». La pensa diversamente il ministro della Salute Giulia Grillo. «Quello delle diseguaglianze non è un problema Nord-Sud ma è una questione di equità sociale. È inutile parlare di stili di vita corretti se poi non si hanno i soldi per fare un’alimentazione sana».
«La vera emergenza sanitaria, più delle liste d’attesa, è quella di riportare dentro il sistema di assistenza chi nemmeno si prenota per una visita o un controllo», sottolinea il presidente della Federazione di Asl e ospedali (Fiaso), Francesco Ripa di Meana. «Tra i primi obiettivi di noi manager c’è proprio quello della inclusione sanitaria di chi è socialmente più svantaggiato», assicura. Mentre la Grillo proprio ieri ha proposto alle regioni di inserire nel nuovo Patto per la salute misure a favore dell’equità. Più che mai necessarie se si andrà verso quel regionalismo differenziato che la forbice delle diseguaglianze rischia di allargarla anziché ridurla.