Il Sole 24 Ore, 28 febbraio 2019
Biografia di Luigi Fausti
Luigi Fausti è stato un banchiere – orgogliosamente e strenuamente – nel solco della tradizione Comit. Un banchiere che, negli anni 90 delle privatizzazioni e della fine della foresta pietrificata, pensava per la “sua” Commerciale, dove aveva iniziato a lavorare a 18 anni come impiegato di filiale, un destino da banca indipendente e aggregatrice degli istituti più piccoli. Un destino, però, contraddetto e negato dalla Storia.
A un mese dalla morte di Fausti, scomparso il 29 gennaio all’età di 89 anni, si può tracciare un profilo di uno degli uomini di banca – più centrali e meno appariscenti – della vicenda finanziaria italiana. Un profilo duplice, formato sia dal suo ruolo giocato in una dimensione strategica pubblica sia dalla sua personale interpretazione del lavoro del banchiere.
Aldo Civaschi, classe 1941, ha lavorato per 39 anni in Comit e, nel 1999, ne è diventato amministratore delegato: «Fausti ha sempre creduto che la Comit avesse la forza per essere un soggetto attivo e non passivo nella riorganizzazione del settore bancario». Una posizione, la sua, piegata dalla Storia che se – dopo la privatizzazione del 1994, con lo scontro fra la Mediobanca di Enrico Cuccia e l’Iri di Romano Prodi – in una prima fase aveva visto fallire nel 1998 – anche per la furiosa reazione dei vertici e del middle management - il disegno della aggregazione della Comit con la Banca di Roma di Cesare Geronzi, ha poi portato nel 1999 – con l’accordo fra Cuccia e Giovanni Bazoli – all’acquisizione del 70% del capitale da parte di Intesa e quindi, fra il 2001 e il 2002, al suo graduale ma inesorabile assorbimento, con la perdita della specificità della più laica fra le banche nel nuovo aggregato modellato sul canone cattolico.
Gli anni 90 sono stati segnati dalla rimodulazione degli equilibri di potere italiani, in cui Fausti ha faticato a collocarsi: «L’impressione è che tutta la Comit, la più internazionale delle banche italiane, nel rapporto con il resto dell’establishment nazionale, in particolare con la politica, sia sempre stata debole e snervata», nota Giandomenico Piluso, docente di Storia economica all’Università di Siena. Ma gli anni 90 sono stati anche un passaggio fondamentale per la storia industriale del nostro Paese. Racconta Ernesto Pellegrini, imprenditore nella ristorazione e già pàtron dell’Inter: «Ti coinvolgeva, con la sua umanità, nella sua visione professionale. Quando Autogrill venne privatizzata, mi chiese se ero interessato. Io gli dissi che non avevamo la forza finanziaria per farlo. Lui mi rispose che credeva nella mia capacità di imprenditore e che la Comit era pronta a darmi 500 miliardi di lire per acquisirla. Io dissi di no. Alla fine Autogrill andò ai Benetton».
Lo stesso meccanismo virtuoso fra banca e industria è ricordato da Riccardo Ruggeri, oggi proprietario della Valvitalia: «Nel 1993, Comit permise la realizzazione di uno dei primi management buy in in Italia. I canadesi di Novagas erano proprietari di Grove Italia. Io e altri 20 manager, che ci lavoravamo, avevamo già ricevuto delle stock-option. Comit ci diede 140 miliardi di lire per rilevarla. Noi prendemmo il 55% del capitale, la Comit il resto. Due anni dopo, abbiamo venduto agli americani della Dresser Industrial, realizzando un capital gain di sei volte. Un uomo di grande qualità umana e con una visione nitida del rapporto fra finanza e impresa».
Fausti e gli imprenditori. Un rapporto quasi simbiotico, per un banchiere partito dalle filiali e salito gradino dopo gradino nella gerarchia: da impiegato a direttore di filiale, da amministratore delegato a presidente, fino a presidente onorario. Rammenta Gino Luciani, classe 1939, 41 anni in Comit, da cui è uscito nel 1997 come uno dei tre responsabili del servizio crediti: «Con lui il Comitato crediti si teneva tutti i giorni. Alle nove di mattina. Nell’ufficio con il caminetto che era stato di Raffaele Mattioli».
Corsi e ricorsi storici. L’uomo e il banchiere. La vita e la memoria. Un particolare da romanzo: l’ultima casa in cui Fausti ha abitato era nello stesso palazzo, in via Bernardino Telesio – Vecchia Milano, Piazzale Baracca – in cui aveva vissuto Jósef Leopold Toeplitz, dal 1918 al 1931 demiurgo della Banca Commerciale, cuore finanziario del nascente sistema industriale italiano.