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 2019  febbraio 28 Giovedì calendario

Il medico può mentire al paziente?

Si deve sempre dire la verità sulla malattia, anche quando può causare ai pazienti dei danni emotivi, psicologici o fisici potenzialmente gravi e irreversibili? O esistono casi in cui è eticamente lecito mentire o nascondere diagnosi pesanti e prognosi infauste a malati gravi per il loro stesso bene? L’etica del dire la verità in medicina rappresenta ancora oggi un problema centrale, e i dilemmi morali che insorgono nella coscienza di un medico durante la pratica clinica quotidiana confliggono spesso con i principi della deontologia e del segreto professionale. Ogni giorno le decisioni che i sanitari prendono rispetto alle questioni morali che riguardano il rivelare diagnosi di mali incurabili, hanno conseguenze dirette per il futuro di milioni di persone, perché il venire a conoscenza di esami istologici maligni cambia la vita di chiunque si ritrovi tra le mani quel referto certificato. Addolcire la gravità di una patologia, però, significa spesso indurre il malato a rifiutare le cure pesanti ma necessarie per tentare di debellarla, di arrestarla o al limite di cronicizzarla. Ma anche rivelarne l’inesorabile decorso può produrre un rifiuto totale della terapia, la quale, a suo avviso, prolungherebbe le sofferenze senza cambiare comunque l’esito finale, cosa che spesso spinge alla ricerca di alternative più o meno tragiche. Il momento più difficile tra un medico e il suo paziente, infatti, non riguarda tanto la comunicazione della diagnosi o la prognosi, quanto invece la dolorosa esperienza della modalità in cui rivelare una cosa negativa, di apprenderla e di fare i conti con la verità, perché in ambito clinico l’esperienza della verità può essere difficile e penosa anche per chi quella verità deve comunicarla nuda e cruda. Ogni operatori sanitario percepisce immediatamente se il paziente vuole conoscere effettivamente il suo stato di salute o se non vuole sapere, se ha paura e ne è terrorizzato, e spesso è possibile prevedere le reazioni emotive e psicologiche che determineranno l’accettazione o meno di quella inesorabile verità.

TERMINI NETTI
Noi medici siamo obbligati per legge a dire sempre la verità, e se il malato ce la chiede non possiamo essere né mendaci né reticenti, poiché se egli viene a sapere in altro modo il suo reale stato di salute, può rivalersi su di noi per essere stato ingannato o non informato a dovere. Tuttavia c’è modo e modo per rivelare una diagnosi infausta con termini netti, perché sarà anche deontologicamente corretto ma spesso non è umano, e può avere conseguenze non prevedibili. Nell’eterna lotta tra medici e malattie oggi è ancora molto diffusa la prassi di “manipolare” in qualche modo la verità, specialmente quando la prognosi è grave e quando il paziente manifesta serie difficoltà ad accoglierla, facendo temere reazioni inconsuete o ripercussioni negative sul processo terapeutico. Il comportamento da assumere in questi casi infatti è complesso, perché coinvolge aspetti di carattere medico, psicologico, giuridico ed etico, ma è soprattutto sul piano morale e di coscienza che possono sorgere nello specialista interrogativi conflittuali su come si configura la menzogna in tale contesto, non potendo evitare di assumersi la responsabilità di una giusta comunicazione della verità al paziente che a lui si è affidato, che è sofferente e che a lui si è rivolto in una situazione di crisi, di fragilità e di malattia. La Convenzione sui diritti dell’uomo e la biomedica del Consiglio d’Europa afferma all’art 10: «Ogni persona ha diritto di conoscere ogni informazione raccolta sulle propria salute. Tuttavia, la volontà di una persona di non essere informata deve essere rispettata». In molti casi clinici, però, il problema non può esaurirsi in semplici termini di “diritto o dovere”, perché ogni medico si ritrovava quotidianamente a dover affrontare con coscienza e dignità professionale la sua relazione col paziente, ricordando sempre il principio classico “primum non nocere”, capire fino a che punto il suo assistito sia in grado di sopportare quella verità e con quale gradualità si possa arrivare a farla accettare, affrontare e tentare di combattere.

MASSIMA PRUDENZA
Il fondamento del Consenso Informato impone «l’obbligo di una completa, esauriente e comprensibile informazione data dal medico al suo assistito, da cui poi conseguono tutte le altre decisioni», ma spesso sono i familiari, riferendo una particolare fragilità del congiunto, a chiedere che il paziente non venga informato, e altrettanto spesso è lui stesso, pur conscio dei propri disturbi, che assume una tendenza a negarli, ostentando un atteggiamento di rifiuto. Non essendo opportuno stabilire condotte stereotipate, e nonostante il dovere morale della verità, è necessario usare sempre la massima prudenza, e anche in coloro che vogliono sapere è obbligatorio suscitare l’elaborazione della speranza di vita, alleata preziosa di sostegno e mediazione del “dopo comunicazione” delle prognosi negativa. Chiunque di voi pensi di voler conoscere nel dettaglio tutto sul suo reale stato di salute, rifletta sul fatto che la certezza di voler apprendere tutta la verità è una sicurezza che si esprime da sani, quando si è esenti da malattie, e non giudichi o incolpi di debolezza o mancanza di coraggio coloro che non vogliono sapere: quando ci si ammala seriamente si diventa fragili psicologicamente, si ha paura di avere i giorni contati, si cercano vie di fuga o ci si rifugia nella fede e nella speranza, quella che nessun medico al mondo deve spegnere, anche di fronte a una diagnosi evidente e maligna e ad una prognosi inesorabilmente infausta.