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 2019  febbraio 28 Giovedì calendario

Il Venezuela e la guerra per il petrolio (e non solo)

Un’invisibile linea rossa divide il pianeta in due. Su un lato gli Stati Uniti d’America, superpotenza leader, con alleati di vario ordine e grado, alcuni dei quali apertamente trattati da avversari – Germania in testa. Sull’altro, la Cina, sfidante in apparente ascesa, con al fianco la Russia, riluttante ma potente partner. Non c’è al mondo crisi che non sia attraversata da questo peculiare bipolarismo. Il Venezuela non fa eccezione. Anzi, ne avvicina il modello perfetto. La disputa fra Nicolás Maduro e Juan Guaidó sulla titolarità della presidenza venezuelana sorpassa infatti di molto la dimensione domestica. In quel Paese un tempo sinonimo di leggendaria ricchezza, oggi affamato e devastato, piagato da un’inflazione paragonabile a quella che quasi un secolo fa mise in ginocchio la repubblica di Weimar, la lotta per il potere verrà decisa dalla prevalenza di un polo o dell’altro. Oppure non lo sarà, e si protrarrà nel tempo a scapito del popolo venezuelano – almeno di coloro che non possono o non vogliono emigrare. In tal caso Guaidó e Maduro, campioni locali di Usa e Cina/Russia, continueranno a proclamarsi legittimi eredi di Bolívar sulle rovine della sua città natale, Caracas, con il Venezuela ad allungare l’elenco degli Stati falliti. Luogo comune vuole che a scatenare l’interesse delle maggiori potenze per il Venezuela sia il suo immenso tesoro petrolifero. Nel bacino dell’Orinoco si stimano circa 300 miliardi di barili di greggio. Prime riserve al mondo, superiori alle saudite. Ma la profonda crisi economica, inasprita dal duello per la presidenza della repubblica, insieme alla corrotta e inetta gestione della Pdvsa, il colosso petrolifero che ha alimentato il miraggio neobolivarista di Hugo Chávez e Nicolás Maduro, hanno ridotto la produzione a meno di un milione di barili al giorno rispetto ai cinque d’inizio secolo. Diverse tra le grandi compagnie un tempo affascinate dall’Orinoco hanno fatto le valigie. Inoltre l’America, principale importatore e raffinatore di greggio bolivariano, potrebbe presto non aver più bisogno di rifornirsene, grazie alla crescente disponibilità di shale oil domestico. La dimensione energetica non basta dunque a spiegare l’intervento degli Stati Uniti, senza il cui appoggio Guaidó non si sarebbe mosso. Vanno considerati almeno tre altri fattori. Anzitutto, completare e sancire il cambio di tono geopolitico e ideologico del Sudamerica a favore dell’egemone a stelle e strisce. Omaggio alla sempiterna dottrina Monroe, che non accetta interferenze straniere – in questo caso sino-russe – nelle Americhe. Poi, chiamare alla prova di fedeltà gli alleati europei. Con l’Italia unico fra i rilevanti a non rispondere all’appello, mentre Francia e Spagna gareggiavano a chi fosse più vicino a Guaidó, dando senza ironia gli otto giorni a Maduro (dal nono giorno non se ne parla più). Infine, il peso della diaspora venezuelana in Florida, Stato chiave nelle elezioni presidenziali: si calcola vi risiedano più di 200mila cittadini americani di origine venezuelana. Se consideriamo che nel 2016 Donald Trump batté Hillary Clinton per poco più di 100mila suffragi, si capisce che quel tesoretto elettorale faccia gola ai repubblicani, riferimento dei sostenitori di Guaidó. Cina e Russia continuano a sostenere Maduro, pur consapevoli della sua impopolarità e della sua criminale inettitudine, confermata dalla chiusura ai pelosi aiuti umanitari bloccati al confine con la Colombia, laddove sarebbe bastato filtrarli e verificare che non nascondessero altro. Ma nessuno a Pechino e a Mosca è pronto a morire per Maduro. Il quale comunque non sarà mai in grado di onorare il debito accumulato nei loro confronti – quello con la Cina supera i 20 miliardi. È peraltro dubbio anche il grado di supporto di Washington al suo referente locale. In altri tempi i servizi americani avrebbero provveduto a comprare i capi militari venezuelani prima che Guaidó si proclamasse presidente, come grammatica degli apparati prescrive. Se lo stallo durasse ancora, la parola passerà alle armi. In tal caso i venezuelani scoprirebbero che hanno da perdere più di quel che hanno già perso.