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 2019  febbraio 27 Mercoledì calendario

Estratto da Viva l’Italia di Francesco Bonazzi (Chiarelettere)

 Il fantasma a orologeria del debito pubblico
 
Che il nostro paese abbia il debito pubblico più alto d’Europa è noto, ma se prendiamo il debito cosiddetto aggregato, ovvero quello che somma ai debiti dello Stato quelli di imprese, banche e famiglie, la realtà assume contorni un po’ diversi. L’Italia si dimostra nella media e senza particolari problemi di debito. Seguendo questa classifica, “che però al momento non fa parte delle griglie con cui l’Unione europea giudica l’operato dei suoi membri”, emerge che la Francia è la nazione finanziariamente più in bilico, con una leva finanziaria che sorpassa il 400 per cento. L’Italia invece supera di poco il 350 per cento, che è pur sempre molto a fronte del 270 della Germania, anch’essa comunque non proprio «virtuosa», per usare le simpatiche categorie moraliste in voga tra banchieri centrali. 
Ma lasciamo perdere gli aggregati, che sono per definizione sempre discutibili, anche se a volte permettono di vedere panorami diversi, e passiamo a un indicatore concreto come la casa. In Italia, otto famiglie su dieci vivono in abitazioni di proprietà, secondo i dati forniti nel 2017 dal ministero dell’Economia e della finanza (Mef) e dall’Agenzia delle entrate, aggiornati purtroppo soltanto al 2014. Considerato che il valore medio delle abitazioni, noto all’Agenzia per difetto, si attesta intorno ai 170.000 euro per appartamento, possiamo dire che le famiglie italiane sono più che adeguatamente patrimonializzate. Anche perché il reddito medio disponibile si aggira sui 30.000 euro e l’indebitamento medio sui 20.300 euro. 
 Se allarghiamo lo sguardo all’Europa, la situazione di casa nostra è addirittura brillante: le famiglie italiane sopportano complessivamente un debito pari al 62,9 per cento del reddito disponibile, contro una media dei paesi europei che si aggira intorno al 96 per cento.5 Insomma, scrocconi no e cicale neppure, quando dobbiamo pensare al bilancio familiare. 
 Un confronto continentale sulle prime case, aggiornato al 2015, consegna una fotografia in linea con l’immagine che hanno di noi le banche e le assicurazioni, che ci conoscono bene perché gestiscono ogni giorno la nostra ricchezza, sia emersa sia sommersa. La percentuale di proprietari di case in Italia è pari al 72,9 per cento ed è inferiore ad altri paesi europei come la Polonia e la Lituania (non esattamente la Mecca del mattone), ma è sopra di tre punti alla media europea, che è del 69,5 per cento. I veri «grandi proprietari» di case sono i romeni, con il 96,4 per cento, e i croati con il 90,5. I lituani sono all’89,4 e una lunghissima serie di nazioni staziona intorno all’80 per cento come, per esempio, i norvegesi, i serbi, i maltesi. Saranno comunità dove c’è meno speculazione e più redistribuzione? O sono solo tradizionalisti e poco «finanziarizzati», come direbbero con una punta di riprovazione i banchieri centrali di Francoforte e i loro ex colleghi della City? Ognuno può trarre le proprie conclusioni da solo, ma qui basta e avanza per mettere a fuoco un primo indice di «solvibilità» nazionale. 
 Certo, se ci paragoniamo con i paesi a noi più simili, siamo proprio un’eccezione (riprovevole?): solo il 51,9 per cento dei tedeschi, il 64,1 dei francesi, il 63,5 degli inglesi abitano in una casa di proprietà. Tra i grandi Stati europei ci batte la Spagna, dove il 78,2 per cento delle persone possiede un’abitazione, ma si sa, siamo tutti Pigs, ovvero «maiali», come indicano la «P» di Portogallo, la «I» di Italia, la «G» di Grecia e la «S» di Spagna. Tornando al nostro ex barbaro reduce dalla Riviera romagnola, non può che rodergli il fegato quando rientra nella Ruhr, a meno che faccia parte di quella schiera di uomini interiormente superiori che non vuole case di proprietà, come i mistici, i separati, i pignorati e i piccoli capitalisti a elevata ottimizzazione fiscale.
 I dati ufficiali del Mef, pubblicati a maggio del 2017,6 parlano di un patrimonio immobiliare che vale 3,8 volte il Pil, ovvero 6227 miliardi di euro. Ora, è vero che in caso di default crollano anche i prezzi delle case, ma intanto dovrebbe confortare anche «Der Spiegel» il fatto che il patrimonio immobiliare italiano sia 2,7 volte il nostro rinomato e temutissimo debito pubblico. Ma vogliamo essere più «rigorosi», vogliamo far finta che la ricchezza della nazione non esista e che il debito pubblico sia, in caso di necessità, un problema solo del governo, entità a sé? E allora, secondo i dati Istat del febbraio 2018, le pubbliche amministrazioni hanno un patrimonio reale di 476 miliardi, costituito in larga parte da immobili, ma anche da altre voci come i terreni e gli armamenti, che ci servono per «stare al mondo» con il dovuto rispetto, nonostante non si abbia il nucleare. Se passiamo al settore pubblico, nel 2016 «il valore dello stock di attività non finanziarie possedute dall’insieme dei settori istituzionali in Italia è pari a 9561 miliardi di euro. Oltre l’84 per cento dello stock di attività non finanziarie è costituito da immobili; quelli residenziali pesano per il 60 per cento e quelli non residenziali per più del 24 per cento».7 Si tratta di un valore che è oltre il quadruplo del debito pubblico italiano e 5,7 volte il Pil del 2016, l’anno della valutazione dello stock.
 E che cosa succede se invece mettiamo insieme tutte le attività finanziarie dei residenti italiani, Stato, amministrazioni centrali e locali comprese, banche, assicurazioni, famiglie e cooperative? La ricchezza dell’Italia diventa di assoluta evidenza. Bankitalia fornisce i dati relativi al terzo trimestre del 2017 cominciando proprio da se stessa: 908 miliardi di euro in strumenti vari, dall’oro alle obbligazioni. Poi tocca alle istituzioni finanziarie monetarie, esclusa la Bce, insomma banche residenti, fondi comuni monetari e strumenti finanziari sostituibili ai depositi: e siamo a 3700 miliardi di euro. Le assicurazioni ne hanno in mano 855; le amministrazioni centrali dello Stato 386 e quelle locali 56; i fondi pensione controllano 91 miliardi e gli enti previdenziali e assistenziali altri 110. Quindi arrivano le famiglie italiane e le istituzioni senza scopo di lucro al loro servizio (in sostanza le coop vere, che non operano come delle quasi-società), ed ecco spuntare altri 4300 miliardi di euro. Questa è la ricchezza profonda della nazione, frutto in parte anche di un’evasione fiscale impareggiabile, è fuor di dubbio, e sulla quale torneremo più avanti. Ma che fa capire come «il malato d’Europa» non sia certamente l’Italia.
 Bene, il totale di quelli che la contabilità nazionale affidata a Bankitalia chiama «strumenti finanziari», a settembre del 2017 era a quota 16.200 miliardi. È vero che molti di essi sono indisponibili (provate a non pagare le pensioni o a requisire i risparmi privati, o a bloccare i fondi agli ospedali, e giustamente ci sarà il popolo in piazza non solo in Francia ma perfino in Italia), ma questi 16.200 miliardi ci dicono, insieme ai quei 6227 miliardi del patrimonio immobiliare, che l’Italia ha una ricchezza 9,7 volte superiore al proprio costoso, immorale, spaventoso debito pubblico. E abbiamo usato tre aggettivi non strettamente economici, che riflettono tre ordini di giudizio: politico, etico e di percezione. Percezione estera, perché in Italia si fa finta di nulla e anche questo è un eccesso sbagliato. Sempre per capire la psicologia di questa banda di scrocconi che sarebbero gli italiani, scomponiamo quei 4300 miliardi di euro che a settembre del 2017 costituivano l’attivo finanziario delle famiglie più elevato d’Europa. Secondo la Banca d’Italia, di questa montagna di soldi circa 1000 miliardi sono investiti in assicurazioni, altri 1000 in «azioni e altre partecipazioni», oltre 500 in fondi comuni, 325 in titoli obbligazionari (di cui solo 122 in titoli di Stato). E poi c’è una fetta assolutamente non trascurabile di quasi 1400 miliardi ferma sui conti correnti sotto forma di liquidità, depositi bancari e depositi a vista.
 Quest’ultima cifra è assai poco pubblicizzata, ma da anni la forte liquidità in conto corrente degli italiani non cessa di preoccupare l’industria del risparmio gestito, liquidità che viene puntualmente presentata dai giornali come un dato molto negativo e indice di chissà quale arretratezza o, peggio, immorale e figlia di un immobilismo egoista. Insomma, l’altra faccia del famoso «cavallo che non beve» con cui le élite politiche e finanziarie si giustificano quando le loro ricette economiche falliscono.
 In realtà, questa liquidità ferma e immobile come un geco sulla parete del terrazzo indica alcune altre cose, decisamente impopolari per le medesime élite politiche e finanziarie. Per esempio che anni di riforme delle pensioni, minacciate o realizzate, lasciano il segno sulla fiducia degli italiani per il futuro. E che anche con i tassi a zero, i clienti non si fidano delle banche e hanno paura di aver bisogno con urgenza di una linea di credito che potrebbe essere accordata solo in cambio di garanzie assassine e impegnando persino la dentiera della nonna. Ciò significa che in un sistema economico dove ormai «nessuno paga nessuno» e anche le grandi aziende, per concedere ai fornitori il «privilegio» di lavorare con loro, saldano i conti a centottanta giorni, pur di non avere un dannato bisogno di liquidità, si preferisce tenerne un’ampia parte sui conti correnti, nonostante tassi d’interesse irrisori.